L’urgenza di un nuovo pensiero e di una nuova azione di sviluppo della cittadinanza, nel nostro Paese, si fa ogni giorno più pressante. È quasi paradossale come, con i millenni di storia che abbiamo alle spalle, con l’esperienza viva di reciprocità, relazionalità e convivenza che gli italiani hanno saputo esportare nel mondo, oggi ci troviamo con un fenomeno crescente di delegittimazione, di avversione e di rifiuto del dialogo.
Sembra venir meno, in certi casi, lo stesso riconoscimento all’altro dello status di cittadino, con la considerazione e il rispetto che gli è dovuto per la sua diversità. Nella vita sociale, nella cultura e nella politica assistiamo ad un crescente fenomeno di negazione dell’alterità come valore umano e civile.
È soprattutto nella politica che si riscontra il deficit maggiore, come per altro ha dimostrato l’autorevole e forte monito del presidente della Repubblica.
Essa porta la responsabilità maggiore perché è chiamata a dare concretamente risposte a questa fase di disgregazione sociale e appare, invece, la portatrice principale di un messaggio negativo e pericoloso. Un messaggio che indebolisce e altera la politica stessa, alimentando il distacco dei cittadini dalle istituzioni e dalla democrazia.
Questa debolezza e questa situazione è sostenuta tra l’altro da una crescente fuga in identità politiche sempre più strette, più superficiali e ideologiche, come dimostrano le difficoltà di tutti i tentativi in corso di unire parti in qualcosa di più grande. Basta ascoltare qualche dibattito parlamentare, per accorgersi che il “parlamentare”, ovvero l’incontro tra tesi diverse, non è più finalizzato alla ricerca di una sintesi attraverso il confronto, ma alla denigrazione dell’avversario, spesso senza il minimo argomento. Per partito preso.
Intendiamoci: non siamo al fascismo e alla repressione, ma ad una degenerazione della qualità della democrazia che rischia l’impotenza e l’insignificanza della politica. Il conflitto, la contrapposizione, la dialettica sono elementi necessari e funzionali al processo di formazione del consenso e della scelta e non credo che la radicalità e la passione non possano andare insieme con il rispetto e la moderazione. Ma ciò a cui assistiamo, ogni giorno, ha contorni diversi e più preoccupanti perché cresce, come argomento principe del conflitto, l’idea che l’avversario, semplicemente, non è portatore di un’identità politica di pari valore della mia.
Ecco quindi che per contrastare idee e progetti politici non si lavora più alle controproposte, ma, contemporaneamente, all’esaltazione e alla semplificazione della propria identità e alla denigrazione di quella altrui. In particolare, il gioco funziona bene su quei temi che richiamano dimensioni profonde e complesse, anche se magari non necessariamente concrete, della vita di tutti: la famiglia, la civiltà occidentale, l’identità nazionale o locale, l’orientamento sessuale, la libertà, la religione.
Se la premessa sopraesposta è condivisibile e c’è un che di deteriore in questa corsa suicida alla destrutturazione delle relazioni politiche e del confronto fra le idee, allora è lecito chiedersi quale testimonianza stiano dando i cattolici di questo Paese su tale fronte.
Quanto i cattolici sono oggi protagonisti di riconciliazione, di dialogo, di comprensione politica, di moderazione e mitezza, di una radicalità che laicamente cerca la sintesi in un panorama sociale e politico così frastagliato? Quanto, in definitiva, sono portatori, oggi, di un messaggio di unità?
Domanda retorica. Me ne scuso. Basta leggere una qualsiasi rassegna stampa per vedere i proclami, le minacce, gli “editti apocalittici” e le dichiarazioni di principio che hanno per protagonisti uomini e donne che si richiamano ai valori e all’identità cattolica per definire i propri confini politici.
Personalmente non lo ritengo un bel segno e penso che occorra provare a mettere in campo una testimonianza diversa. Sia chiaro: non disconosco che da molti settori della società continui a venire una lettura laicista e miope dell’apporto delle religioni alla vita pubblica; così come occorre porsi il problema del venir meno di un’etica pubblica condivisa che una certa cultura individualista e libertaria ha determinato nel nostro Paese. Allo stesso tempo, però, mi pare che la Chiesa e i movimenti cattolici abbiano ceduto troppo in fretta la coerenza degli stili e dei metodi che ci sono stati donati dal Concilio Vaticano Secondo, per omologarsi alla pratica della peggior politica.
Anatemi e diktat, bandiere ed etichette non mi sembra che corrispondano al modo migliore per esprimere al meglio il proprio impegno laicale e politico. Con un rischio estremo. La stessa mondanizzazione del cristianesimo.
Dice bene Marco Damilano nel suo libro Il partito di Dio [Torino, Einaudi, 2006, N.d.R.]: il rischio è quello di «fondarsi sulla stessa rappresentazione mediatica così radicalmente contestata e di corrispondere poco o nulla alla vita quotidiana di milioni di credenti».
Una deriva politicista e identitaria della presenza cattolica nella nostra società porta inevitabilmente ad un approdo infausto: un uso politico della categoria cattolico che diviene sinonimo di partito, dell’essere di “parte” e quindi relativo, erodendo e contraddicendo quella “differenza cristiana” che è, e rimane, la capacità di stare in compagnia degli altri con amore.
Ecco che, allora, la testimonianza politica più urgente, a mio parere, è oggi quella della laicità. Una laicità portatrice di idee e di sintesi condivise, che dia valore alla politica nella sua dimensione storica e di servizio quale esercizio vero e vitale di carità.
*Testo tratto da Dialogos online. Per gentile concessione di tale testata.
**Movimento dei Cristiano Sociali.
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