La televisione non ha mai fatto “buu”

Intervista ad Antonio Dipòllina
Continuiamo a dialogare sulla possibilità di un reality show televisivo dedicato al mondo della disabilità, possibilità che si affaccia in Italia grazie all’acquisto, da parte del produttore Fabrizio Rondolino, dei diritti del primo format mondiale sull’argomento, andato in onda in Olanda. Ne parliamo con Antonio Dipòllina, critico televisivo collaboratore del quotidiano “la Repubblica”

Il critico televisivo Antonio DipòllinaNel 2006, in Olanda, la trasmissione televisiva Miss Ability ha ottenuto un indice di ascolti molto alto. Si tratta di un reality show consistente in un concorso di bellezza tra un gruppo di sfidanti con disabilità.
Dopo la notizia dell’acquisto dei diritti del format, il primo al mondo dedicato alla disabilità, da parte del produttore italiano Fabrizio Rondolino, abbiamo intervistato lo stesso Rondolino e, subito dopo, Pietro V. Barbieri, presidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap), che ha mostrato apertura verso la nuova possibilità televisiva.
Ora continuiamo le nostre conversazioni sul tema, rivolgendoci ad un esperto dei meccanismi del piccolo schermo, Antonio Dipòllina, giornalista e critico televisivo, collaboratore del quotidiano «la Repubblica».
Innanzitutto gli chiediamo proprio di spiegarci il fenomeno dei reality show. Di che cosa esattamente si tratta? «I reality show sono una forma molto redditizia e ipereconomica per riempire con discreto successo ampi spazi di televisione, una televisione ormai sterminata che ha un bisogno estremo di riempire ore e ore, ma senza andare in bancarotta economica».

Da notare che Fabrizio Rondolino, titolare dei diritti del format per l’Italia, e una parte del mondo della disabilità, ritengono che Miss Ability possa attivare negli spettatori un processo di familiarizzazione con la disabilità, con il conseguente superamento di alcuni pregiudizi. Di parere diverso è l’esperto di comunicazione televisiva Gianluca Nicoletti, secondo il quale la televisione non determina cambiamenti sociali e si limita a riflettere quello che c’è già. Qual è la sua opinione, Dipòllina?
«Tra i due ha più ragione Rondolino, ma per me il punto è un altro: la capacità della televisione di familiarizzare o la sua capacità di rappresentare la realtà sono spesso molto al di sotto della soglia di decenza o, a essere buoni, di accettabilità. Io avrei paura di una familiarizzazione indotta da un reality (che deve, ripeto, deve, rispondere prima di tutto a regole squisitamente televisive, di ricerca del successo, di audience, di voglia di stupire a poco prezzo, dell’assenza di moralità che non sia quella funzionale al progetto). In una parola: ormai non mi fido più della televisione per nessuna buona causa. Ovviamente non posso prevedere (e, ovviamente, me la auguro) una qualche inversione di tendenza, prima o poi, o un segnale diverso. Se venisse da questa occasione, benissimo. Ma, ripeto, io ormai non mi fido più».

«Non avete mai ascoltato un “buu” verso una bambina cieca? Se la risposta è no, questo programma, che rompe le barriere del moralismo e del politicamente corretto, vi mostrerà il modo per mettere fine a tutto questo»: è questo lo slogan pubblicitario della versione originale olandese di Miss Ability, che propone un cambiamento di sguardo televisivo sul tema. Cosa ne pensa? E in Italia, la televisione come rappresenta il tema della disabilità? Come potrebbe rappresentarlo meglio?
«Proprio questo slogan è significativo. Che diavolo vuol dire “non avete mai sentito un ‘buu’ verso una bambina cieca”? Nella realtà di “buu” simili se ne sentono moltissimi, espressi o nascosti, o fatti capire. Qui si sta parlando (loro stanno parlando) di artificio televisivo. Lo slogan intende: “Non avete mai sentito in televisione un ‘buu’? Noi siamo qui a stupirvi”. Disegno di un uomo che aggredisce verbalmente una donnaIn realtà la televisione non riesce più nemmeno a dare un resoconto accettabile della normalità, figuriamoci della diversità… Faccio una domanda: se non fossero nati i reality, qualcuno avrebbe pensato a forme diverse per portare la disabilità in tv? Secondo me no, qui è tutto funzionale a quel progetto e ad alimentare il serbatoio degli argomenti da reality (che oramai ovunque si va essiccando). Ripeto, magari è la volta che mi sbaglio e lo spero, ma le premesse non ci sono. Se poi mi sbaglio, meglio per tutti. Sulla rappresentazione, poi, che si dovrebbe dare in televisione, vorrei che me la spiegasse un disabile o un esperto in disabilità, incrociando esigenze e sensibilità più o meno comuni. Il tema non è semplicissimo. Inoltre noi critici siamo forse i meno indicati a dare soluzioni: guardiamo troppa televisione, ne siamo condizionati e abbiamo un approccio completamente diverso dal telespettatore normale, che è quello che conta. Tutto cambierà quando si vedranno servizi sulle persone disabili, al telegiornale o altrove, in cui non sarà necessario premettere quattro volte che si tratta dei “disabili”, per non spaventare i “normali”. Il grande imperativo che vige in televisione è quello di non scalfire la normalità e di mettere subito in chiaro che il “diverso” è tale e “altro” dal “normale” che guarda e che alla televisione chiede soprattutto rassicurazioni, anche se magari travestite da trasgressività».

Quali sono le caratteristiche che distinguono Rondolino da altri produttori italiani di reality? Che tipo di proposta si immagina formulerà?
Un'immagine del reality «La pupa e il secchione»«Rondolino, in quanto tale, personaggio univoco e riconoscibile, non esiste. È stato altissimo consigliere politico, scrittore, giornalista di livello, creatore di buona televisione, creatore di pessima televisione. Ha fatto bellissimi speciali su fatti di cronaca e poi ha fatto La pupa e il secchione. È abbastanza difficile prevedere quale lato farà emergere in questo caso. L’eclettismo è la caratteristica che lo distingue dagli altri produttori e rende piuttosto complicato prevedere cosa gli frulla nella testa. Se proprio devo sbilanciarmi, preferisco lui a quasi tutti gli altri: sono i reality che non preferisco a nient’altro».

Se la televisione è lo specchio della società, il reality show in che cosa la riflette? Perché agli spettatori piace spiare e giudicare degli sconosciuti in termini personali, fino all’insulto? Chi ha identificato questo meccanismo per primo e lo ha reso popolare? E ancora, quali effetti potrebbe produrre nel mondo della disabilità?
«Il reality (la prima idea è stata di Jon De Mol, creatore di Grande fratello) è un incrocio micidiale di guardonismo e passività televisiva e reale. Si crede di essere partecipi da fuori, invece sono loro che usano te. È vincente sull’audience (ma non sempre, anzi) perché è uno spettacolo in piena regola, che attira l’attenzione. Lo specchio della società sta nel fatto che tutti noi, nella vita quotidiana, guardiamo e giudichiamo gli altri. Il reality ti permette di farlo gratis, in forma anonima e anche parecchio morbosa, e alla fine ti lascia la sensazione che non è successo nulla di grave e che non ti è costato nulla. Invece, alla fine, qualcosa ci hai rimesso, per esempio la possibilità di poter impiegare lo stesso tempo per guardare qualcosa di meglio, che magari ti arricchisca interiormente e non sia solo un esercizio per spendere quello che sei già.
Gli effetti sul mondo della disabilità per me sono difficili da prevedere. Mi chiedo però perché non sia mai successo – almeno fino ad oggi – di inserire una persona con disabilità nel cast normale di un reality e vedere quello che succede. Che ne pensano le persone con disabilità del fatto che Miss Ability non sarà mai considerato un reality ma sempre e solo “il reality con i disabili”? Poi – tendo sempre a conservare qualche speranza – magari viene fuori “un capolavoro di sensibilità”, azzeccatissimo: ma me lo devono dimostrare, mille volte».
(Barbara Pianca)

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