Qualche giorno fa Carlo Hanau [direttore della rivista «Il Bollettino dell’ANGSA», periodico dell‘ANGSA – Associazione Nazionale Genitori Soggetti Autistici, N.d.R.], a proposito di un passaggio del mio articolo sul caso Welby, pubblicato da questo sito, nel quale, oltre a proporre tanti altri interrogativi, prendevo posizione critica, da cattolico, contro il divieto dei funerali religiosi imposto dal Vicariato di Roma, mi ha scritto:
«Per un cristiano il dolore è un mistero salvifico: altrimenti come si può credere che un Padre mandi un Figlio sulla terra per farsi ammazzare in quel modo, da coloro che Egli stesso era venuto a salvare? Forse che non ci sarebbe stato un altro modo meno doloroso? Anche in una parte della tradizione dell’ebraismo i “giusti” non sono quelli che stanno bene, ma sono spesso quelli che ne patiscono di tutti i colori (vedi il libro di Giobbe come esempio). La loro sofferenza è come un parafulmine per tutti gli altri e la loro sofferenza, anche secondo l’Antico Testamento, ha valore agli occhi di Dio. Il valore di una persona che soffre per malattia e disabilità non risiede nella sua diversa abilità, ma nella sofferenza stessa, che trova un significato nel disegno di Dio, imperscrutabile all’uomo e alla sua ragione. La creazione, nella Genesi, non prevedeva né il dolore né la morte, che hanno fatto il loro ingresso quando l’uomo ha voluto mettersi sullo stesso piano di Dio. Ma i non fedeli (atei o agnostici) non possono essere obbligati a comportarsi di conseguenza ad una fedeltà al patto con Dio che essi non hanno stipulato».
Ebbene, colgo l’occasione dell’ospitalità offertami da queste colonne, per rispondere ad Hanau, iniziando col dire che mentre concordo con lui sul fatto che per un non credente le giustificazioni religiose della sofferenza non sono comprensibili, mi permetto di dissentire circa la stessa interpretazione cristiana della sofferenza, come da lui sintetizzata, che è quella tradizionale e preconciliare della «visione salvifica della sofferenza e della Croce».
Premetto di non essere un teologo, ma sono un uomo del mio tempo e avverto tutta l’insufficienza di certe spiegazioni religiose, probabilmente accettabili in un antico e diverso contesto culturale. Infatti, l’interpretazione tradizionale è stata sottoposta a una serrata analisi critica in campo laico e la testimonianza più interessante a livello antropologico e letterario è costituita probabilmente dal fantasioso romanzo di José Saramago Il vangelo secondo Gesù, pur criticabile per alcuni aspetti polemici, in cui viene efficacemente evidenziata l’assurdità e l’inaccettabilità della visione di un “dio padrone”, che pretende il sacrificio riparatore del figlio per essere ripagato dell’offesa ricevuta col peccato originale.
Ma la critica a questa interpretazione tradizionale è stata avviata (ed è attualmente in corso) anche in campo religioso, specie cattolico. Basti leggere, a parte i numerosi saggi ancora troppo riservati ad addetti ai lavori, lo scritto teologico di François Varone Se pensi che Dio ami la sofferenza (versione italiana a cura delle Edizioni Dehoniane Bologna).
Più di recente si veda anche l’interessante ricostruzione storica, teologica, biblica e antropologica del valore salvifico della Croce alla luce del valore salvifico della Resurrezione, contenuta nel saggio di Giordano Frosini La Risurrezione inizio del mondo nuovo (Dehoniane 2002).
Per molti di noi cristiani, la morte in croce di Gesù viene spiegata come la sua suprema testimonianza di fedeltà all’annuncio di salvezza, realizzabile con una nuova visione di Dio come Padre e di nuovi rapporti fra gli uomini, figli tutti dello stesso Padre e quindi fratelli, dai quali vanno banditi i rapporti di formalismo legalistico e di sopraffazione da parte dei più forti, specie se esponenti del potere religioso, ai danni dei più umili e più deboli.
Si rileggano a questo proposito le numerose invettive contro gli «scribi e i farisei». Si vedano le dure prese di posizione contro la profanazione del «Tempio», ridotto a luogo di commistione affaristica di religione e politica e a «spelonca di ladri». Si vedano i numerosi miracoli operati di Sabato – giorno sacro al riposo secondo la legge mosaica – in cui Gesù afferma che «il Sabato è fatto per l’uomo» e non viceversa. Si veda ancora la rilettura della parabola del «Buon Samaritano», ridotta, nell’interpretazione tradizionale, ad una sorta di “santino di sdolcinata bontà” e che è invece una polemica contrapposizione dell’amore per il prossimo, operato dal Samaritano, allora considerato un eretico, all’indifferenza del «Levita e del Sacerdote», che passano oltre.
Per noi persone con disabilità, la rilettura della vicenda umana di Gesù è di fondamentale importanza per depurarla dalle incrostazioni tradizionali pseudo-spiritualistiche, che sono state pure improvvidamente utilizzate per dare a noi e alle nostre famiglie spiegazioni falsamente consolatorie e facili – oltre che religiosamente fuorvianti – circa il significato delle nostre sofferenze, che invece vanno trattate con il rispetto che si deve a tutti i misteri del vivere umano, come fece Gesù che sanò quanti incontrò, affetti da disabilità fisiche, intellettive e sensoriali.
E questo del senso da dare alle nostre sofferenze è un tema ancora totalmente aperto. Ringrazio dunque Carlo Hanau che mi ha offerto lo spunto per riaprire un dibattito che merita un grande approfondimento e una partecipazione corale da parte di disabili e non disabili, da parte di credenti e non credenti.
*Vicepresidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).
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