Né giusto né sbagliato

di Simona Lancioni*
Vi è una questione che non è stata quasi mai presa in considerazione negli interventi successivi alla recente vicenda accaduta all'Ospedale San Giovanni di Milano e che ha avuto come esito la soppressione di due feti: è quella della maggiore incidenza della presenza di una disabilità del figlio sugli stili di vita dei genitori e in particolar modo su quelli della madre

Donna pensierosaÈ giusto portare avanti una gravidanza sapendo che l’embrione presenta gravi malformazioni o anomalie che procureranno al nascituro malattie e/o disabilità altamente invalidanti e incurabili? Si possono vedere in questi progressi della medicina i germi di una nuova eugenetica?
La vicenda che ha recentemente visto coinvolto l’Ospedale San Giovanni di Milano [il nostro sito se n’è già occupato con gli articoli Meglio tenere l’ombrello aperto di Giorgio  Genta e L’aborto selettivo e gli «insulti della natura» di Patrizia Tolot, N.d.R.] e che ha avuto come esito la soppressione di due feti – prima quello senza patologie evidenti (per errore), poi quello interessato da sindrome di Down – sembra avere suscitato questi interrogativi.

Le persone con disabilità – intervenute sulla questione in relazione al caso specifico o in relazione a casi passati – si sono sempre posizionate in modi differenziati. C’è chi afferma di sentirsi felice e realizzato e considera gli aborti terapeutici come una palese forma di discriminazione ai danni delle persone con disabilità. C’è poi chi ammette di aver raggiunto un personale equilibrio, ma, ben consapevole della fatica quotidiana ingenerata dalla propria condizione, non prende neanche in considerazione l’ipotesi di “farne dono” a un figlio. C’è ancora chi la propria condizione di disabile non l’ha mai accettata e la vive come un dolore senza senso e senza colpa. C’è infine chi non può e non sa rispondere.

Nella moltitudine di interventi che si sono susseguiti, sia nei media, sia nei comunicati delle associazioni di settore, colpisce una macroscopica omissione: quella inerente la maggiore incidenza della presenza della disabilità del figlio sugli stili di vita dei genitori e, in particolar modo, su quelli della madre. Ciò anche in presenza di una cospicua documentazione sul tema.
Non una parola sui processi di vulnerabilizzazione che investono i caregiver proprio in ragione del loro prendersi cura. Non un cenno sull’impatto materiale, sulla compressione delle condizioni di vita, sull’inasprimento, più o meno marcato, dei vincoli organizzativi, sui processi di depauperamento materiale e/o relazionale che stanno dietro molti tragici fatti di cronaca, sulle maggiori difficoltà a trovare e mantenere un lavoro o a fare carriera nell’ambito dello stesso.
Non una riflessione sull’impatto simbolico di certe scelte, sui processi di revisione biografica e identitaria, sulle alterazioni dei rapporti sociali e delle forme di reciprocità (si veda a tal proposito G. Costa, Prendersi cura e vulnerabilità sociale, un nesso da non sottovalutare, in «Studi Zancan. Politiche e servizi alle persone», n. 2, marzo/aprile 2007). Una maggiore incidenza che se scelta consapevolmente può essere affrontata con l’opportuno piglio combattivo, ma che se subìta potrebbe essere percepita e vissuta come una gabbia opprimente e asfittica

Eppure non è questa l’anomalia maggiore. L’anomalia maggiore consiste nel pensare che la legge sull’aborto possa opportunamente essere letta e piegata in funzione dei diritti dell’embrione, quando essa invece è stata pensata e creata come strumento di autodeterminazione della donna.
Posta in questi termini la questione assume la prospettiva che più ad essa è consona: o si ammette a chiare lettere che quello che si sta delegittimando è il diritto della donna ad autodeterminarsi – e in tal caso non è solo l’aborto terapeutico ad essere messo in discussione, ma l’aborto in generale – oppure diventa difficile capire perché l’aborto di un embrione senza particolari anomalie dovrebbe considerarsi legittimo, mentre quello dell’embrione con evidenti anomalie dovrebbe essere stigmatizzato negativamente.

È dunque giusto portare avanti una gravidanza sapendo che l’embrione presenta gravi malformazioni o anomalie che procureranno al nascituro malattie e /o disabilità altamente invalidanti e incurabili? Forse non è né giusto né sbagliato.
L’aborto terapeutico diventa una strada possibile se la donna non si sente in grado di affrontare adeguatamente la disabilità del figlio e gli impatti materiali e simbolici ad essa correlati. Esso si trasforma in possibilità ininfluente quando le valutazioni personali e soggettive della donna la inducono a scegliere di portare avanti la gravidanza. Scelte entrambe legittime, a condizione che si riconosca alla donna il diritto di autodeterminarsi.

*Responsabile di Informare un’H – Centro “Gabriele Giuntinelli” di Peccioli (Pisa).

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