Non si sono ancora spenti gli echi della Conferenza Nazionale di Roma sulla Vita Indipendente, che dal 4 al 6 ottobre ha coinvolto parlamentari, esponenti degli Enti Locali e il ministro della Solidarietà Sociale Ferrero, insieme ad oltre sessanta rappresentanti provenienti da quattordici regioni italiane.
Un appuntamento – sul quale abbiamo già ampiamente riferito – che oltre ad essere la giusta “rampa di lancio” sia per il Coordinamento Nazionale che per una specifica proposta di legge, potrebbe procurare – come in molti auspicano – una vera e propria “onda lunga” su tali questioni, con varie ricadute concrete.
Da parte nostra continuiamo a dar voce alle opinioni di personaggi appartenenti alla società civile, coinvolti a vario titolo nei temi della Vita Indipendente e questa volta abbiamo rivolto due quesiti a Nina Daita, persona con disabilità, responsabile nazionale dell’Ufficio Politiche per la Disabilità della CGIL.
Vita Indipendente è una formula fatta di due parole che racchiudono al proprio interno aspettative e speranze. Cosa effettivamente si può fare per rendere maggiormente “libere” le persone con una grave disabilità?
«Ogni uomo o donna aspira alla propria autonomia che, a mio modesto parere, non vuol dire solo indipendenza nei movimenti, ma libertà nelle scelte.
Ognuno dovrebbe insomma poter esercitare il proprio diritto di cittadinanza e di dignità nelle proprie aspirazioni, passioni, sensazioni, emozioni. Uno Stato giusto ed equo dovrebbe garantire ai propri cittadini, in specie ai cittadini con disabilità (sia grave che meno grave) servizi, ausili, assistenza, formazione e garantire in tal modo l’autodeterminazione di ogni persona».
Il “cavallo di battaglia” del movimento italiano per la Vita Indipendente è certamente quello dell’assistenza personale autogestita. In questo senso lei crede che sia possibile pensare ad un welfare più discreto e meno intromissivo nelle scelte di vita?
«Da sempre il sindacato si batte per un welfare di giustizia sociale rispettoso e tollerante delle persone. E in ogni caso credo che non si tratti solo di risorse economiche, di carenza o di inefficienza dei servizi, ma di un problema culturale e di mentalità arcaica che nel nostro Paese è largamente diffusa.
Ovviamente mi riferisco a quegli atteggiamenti di presunta superiorità nei nostri confronti, quasi fossimo “oggetti da accudire” e non persone pensanti. In questo senso è auspicabile che le associazioni, i sindacati e tutti i vari attori coinvolti continuino – così come abbiamo fatto in questi anni – la dura battaglia contro questa pseudocultura ottusa e discriminante, ponendoci come obiettivo la nostra liberazione ed emancipazione, rivendicando una solidarietà, un’assistenza e una competenza rispettose della nostra dignità».
Si ringrazia per la collaborazione Dino Barlaam, del Coordinamento Nazionale per la Vita Indipendente e dell’Agenzia per la Vita Indipendente (AVI) di Roma.
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