La salute è l’equilibrio della persona con se stessa e con il proprio ambiente*

di Luisella Bosisio Fazzi**
Un titolo, il nostro, apparentemente scontato, ma lo diventa molto meno se il problema è quello di rivedere i metodi della medicina riabilitativa rivolta alle persone con disabilità, superando il cosiddetto "approccio medico alla disabilità". Presentiamo un approfondito intervento dedicato a questi temi, scritto da chi se ne occupa da molti anni, vivendoli anche personalmente

New York, 31 marzo 2007: Nicola Fazzi e la mamma Luisella alle Nazioni Unite, in occasione della firma italiana della Convenzione ONU sulla disabilità (foto di G. Fazzi)Per rendere più chiara l’impostazione di questo intervento, vorrei innanzitutto presentare la mia attività associativa all’interno del movimento della disabilità.
Sono la madre di un ragazzo diventato disabile quando era ancora un neonato. Aveva quattro mesi e mezzo e quindi posso dire di avere fatto esperienza, con mio marito, del significato che può avere questo evento in una coppia-famiglia-rete familiare/amicale.
Nel corso di questi vent’anni ho lavorato all’interno dell’Associazione Genitori della Nostra Famiglia con genitori di bambini con differenti disabilità, differenti nell’eziologia, nel livello di gravità e nel loro sviluppo.
Ho conosciuto e cerco di dedicare particolare attenzione alle persone con GCLA [Gravi Cerebrolesioni Acquisite, N.d.R.] e alle loro famiglie e ora, alla fine di questo lungo periodo, mi occupo delle problematiche inerenti le politiche europee e internazionali nell’ambito della disabilità, quale presidente del Consiglio Nazionale sulla Disabilità (CND), rappresentante dell’Italia presso il Forum Europeo della Disabilità (EDF).

Come ho accennato, questa carrellata serve a conferire maggiore chiarezza – esponendo le mie esperienze passate e presenti – ai punti che andrò ad evidenziare e quindi ad aprire un varco sulla percezione della famiglia riguardo ad un proprio familiare che da bambino sia diventato o stia diventando adulto, rispetto al vissuto della storia riabilitativa, alla presa di coscienza della realtà, al rapporto con le istituzioni e al riconoscimento del protagonismo di quel figlio con disabilità.
In questo mio intervento, dunque, cercherò di riflettere sulle relazioni che intercorrono  tra il percorso riabilitativo, la persona “oggetto attivo” o “passivo” di questo atto e la sua famiglia, chiedendo anche la necessità di riconoscere queste relazioni come bisogni e domande all’organizzazione terapeutico-riabilitativa alle quali non si può non rispondere.

In un seminario dedicato all’Appropriatezza in medicina riabilitativa avevo esordito a suo tempo chiedendo all’auditorio di confrontarsi con me sul significato di appropriatezza, per poter procedere poi all’analisi del tema che mi era stato assegnato, partendo da un linguaggio comune. Un linguaggio comune che discende dalla condivisione e dall’affermazione dei princìpi di salvaguardia della dignità della persona umana e del suo bisogno di salute intesa come diritto ad accedere alle stesse prestazioni che ricevono gli altri cittadini, ma non solo.
Infatti, il diritto alla salute non dev’essere visto come il diritto ad essere sano, ma come un diritto al godimento di una varietà di beni, servizi, facilitazioni e condizioni necessari per la realizzazione del più alto standard raggiungibile di salute.
Ebbene, appropriatezza, per noi famiglie, significa:
– equità nell’accesso alle prestazioni e ai servizi;
– qualità delle cure;
– appropriatezza rispetto alle specifiche esigenze;
– economicità nell’impiego delle risorse.
Gli ulteriori significati, che accenno solamente, potrebbero essere ad esempio:
– la disponibilità (quantità sufficienti);
– l’accessibilità, con quattro dimensioni che si sovrappongono: non-discriminazione (i beni, i servizi e le facilitazioni sanitarie devono essere accessibili a tutti), accessibilità fisica, accessibilità economica e accessibilità alle informazioni;
– l’accettabilità, intesa come rispetto dell’etica;
– la qualità, intesa come appropriatezza scientifica.

Fatte tutte queste premesse, passo subito alla mia proposta di riflessione, seguendo quell’elenco di momenti importanti e vitali di una famiglia che vede al proprio interno un figlio con disabilità

1. Vissuto della storia riabilitativa
La famiglia, quando un suo componente è in difficoltà, è il primo elemento che viene direttamente coinvolto e contemporaneamente è il primo ambiente in cui dev’essere organizzata una risposta al problema.
La diagnosi di disabilità è sempre un evento altamente destabilizzante e a volte può assumere un’elevata potenzialità distruttiva e disorganizzatrice dell’intero nucleo familiare. Certo, non è possibile generalizzare poiché ogni situazione è differente dall’altra, ma sicuramente la storia di quella persona, di quella famiglia e dei suoi componenti dipenderà dal tipo di famiglia protagonista di quell’evento.
Riabilitazione di un ragazzo con disabilitàIn questo senso, una famiglia che sia in grado di resistere alle spinte negative che l’evento ha provocato – nonostante i suoi eventuali limiti – può essere intesa come risorsa. Al contrario, quando il luogo famiglia è pervaso da sensi di colpa, demotivazione e frustrazioni, esso può generare rapporti deteriorati sia al proprio interno che verso l’esterno e può diventare un luogo dove le relazioni sono complicate da equivoci e disagi che interrompono o non permettono un atteggiamento accogliente e disponibile al dialogo e che impediscono di ricevere – quando esiste – un aiuto.
Ecco allora che l’ambiente famiglia è importante per la comprensione della comunicazione riguardante la diagnosi e la prognosi ed è importante sapere quanto quella famiglia abbia o non abbia capito e creduto di quella comunicazione. Proprio questo è il momento in cui i genitori devono affrontare la verità e distinguere tra il desiderio e la realtà.
Fino ai 14 anni si vive il periodo in cui nella famiglia si attivano le alleanze terapeutiche e si programma il percorso riabilitativo; questo è anche il momento in cui si capisce la potenzialità di coesione e solidarietà della rete familiare e amicale; ma è anche il periodo sul quale – verso la fine di esso – incombe il grave rischio che porta la consapevolezza del significato del “prendersi cura” e la limitatezza della “cura”. Si tratta del momento che precede la presa di coscienza della realtà.

2. Presa di coscienza della realtà
Nel racconto di tutte le famiglie che mi è capitato di incontrare, è questo il momento peggiore, quello vissuto con maggiori sofferenze. Addirittura il periodo tra i 14 e i 18 anni è in assoluto il più complesso.
Il figlio non è più un bambino, anche se a volte il suo corpo adulto si comporta come quello di un neonato e il carico assistenziale si fa sempre più pressante. Si prende sempre maggior coscienza dei difetti e nel caso di una disabilità intellettiva, si capisce che la maturità anagrafica non corrisponde a quella biologica.
“Finalmente” sono chiare, dunque, le differenze tra quei desideri e questa realtà. Sulla nostra pelle, e attraverso la quotidianità, prende forma il figlio reale ed è necessario riconsiderare il nostro rapporto con lui e con il contesto abituale dove la persona e la sua famiglia vive. Sto parlando della comunità sociale, del gruppo dei pari, della famiglia nei rapporti con il partner, i genitori, i fratelli.

3. Il rapporto con le istituzioni
Un altro elemento importante in questa fase della vita della famiglia e dei suoi componenti è rappresentato dal modificarsi dei rapporti con le istituzioni.
Il figlio è ormai uscito dal mondo della scuola, alcuni legami con il mondo esterno si sono interrotti, altri se ne sono creati e tra questi, quelli che più frequentemente provocano disagi derivano proprio dal contatto con enti o strutture fornitrici di servizi sanitari e sociali, con operatori e amministrazioni locali.
Frequentemente si tratta di relazioni difficili, piene di equivoci, generatrici a loro volta di sofferenza perché a questo punto, rispetto al mondo esterno – verso amici, lavoro, vita sociale – i coniugi si sono spesso costruiti un muro difensivo-offensivo originato dalla tensione, dall’insicurezza e dal dolore provocato dalla situazione.
Persona con grave disabilità insieme a giovane donna non disabileSi può quindi dire che il passaggio: affidamento alla riabilitazione > grande lavoro e impiego di risorse > grandi aspettative si concluda in una grande delusione.
La nostra preoccupazione è la prevenzione del peggioramento della condizione di quel figlio, è il mantenimento di una personale autonomia ottenuta, è un buon livello di qualità di vita misurata su quella persona e su di noi. Proprio allora comprendiamo che servirebbe un progetto individualizzato e invece si entra nel vuoto determinato dalla mancanza di risorse economiche pubbliche e dei servizi. A disposizione c’è solo un elenco di servizi, senza verificare se esso sia quello di cui quella specifica persona ha bisogno per il proprio progetto di vita personale. Inizia così la ricerca delle strutture adeguate e quando queste non vengono trovate, si rischia di azzerare ogni beneficio fino ad allora ottenuto.

4. Il riconoscimento del protagonismo del figlio con disabilità
Quest’ultima riflessione è il frutto del percorso che le associazioni di persone con disabilità e dei loro familiari hanno elaborato negli ultimi anni e che a partire dal 1993 – con le Regole Standard delle Nazioni Unite per l’Uguaglianza delle Opportunità per le Persone con Disabilità – sono culminate con la loro partecipazione alla scrittura della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite alla fine del 2006.
Secondo questo percorso, anche per le famiglie sono le persone con disabilità le protagoniste e il motto Niente su di Noi, Senza di Noi indica il modo con il quale la comunità civile deve relazionarsi con esse, quand’anche necessitassero della mediazione delle loro famiglie.
Questo non vuole certo essere un atteggiamento di sfida o di rivendicazione, ma semplicemente il frutto di un cammino che mira a riconoscere le persone con disabilità come protagoniste attive della propria vita, detentrici di diritti di scelta e di cittadinanza.
Le famiglie, specialmente quelle che provvedono alla cura e all’assistenza delle persone con elevato grado di dipendenza o non in grado di rappresentarsi da sole, rappresentano un essenziale – se non unico – supporto alla tutela dei loro diritti e sono una risorsa fondamentale nei processi di prevenzione all’istituzionalizzazione e di deistituzionalizzazione, di promozione della vita indipendente e nel sistema di servizi di supporto alla comunità.
Le famiglie stesse, insieme alle persone con disabilità, affermano che l’assistenza sanitaria e la medicina riabilitativa sono dei pilastri senza i quali è demagogico parlare di pari opportunità; e tuttavia questi pilastri devono essere dedicati alla finalità di promuovere correttamente il diritto alla salute delle persone con disabilità, allo scopo di garantirne il pieno sviluppo personale e la partecipazione alla vita sociale; diversamente, se praticati come un’attività fine a se stessa, costituiscono una negazione della dignità della persona umana con disabilità.
Tali princìpi, contenuti ora anche negli articoli 25 e 26 della Convenzione ONU, implicano non solo che le persone con disabilità possano accedere alle cure sanitarie di tutti, ma soprattutto che ogni trattamento specifico a loro dedicato sia orientato a quei valori chiave di autonomia, indipendenza e autodeterminazione rivendicati per poter raggiungere la piena integrazione nella società. L’obiettivo della cura, quindi, non dev’essere la “guarigione”, ma il raggiungimento del più alto livello possibile di salute personale, intendendo con “salute” l’equilibrio della persona con se stessa e con il proprio ambiente. Ne deriva in tal senso un completo riorientamento della medicina riabilitativa, che deve sempre tenere in primo piano il pieno rispetto dei diritti e della dignità della persona con disabilità.

Ecco dunque che parlare di etica nella riabilitazione significa identificare un ambito che riconosce alla persona con disabilità e/o alla sua famiglia un diritto alla ricerca di una relazione e lo individua come titolare, nelle varie situazioni, del proprio progetto riabilitativo, per aderire attivamente alle scelte operative, all’interno di un reciproco rispetto dei ruoli e delle competenze.
Inoltre, dev’essere riconosciuta l’interazione che si deve inevitabilmente avviare tra la persona e/o la sua famiglia e le strutture che si prendono cura della persona stessa, così come è importante intraprendere una riflessione sui bisogni vitali di quella persona e sulla necessità di ottenere risposte chiare e puntuali.
Riabilitazione di un bambino con disabilitàSolo in questo modo si può instaurare un rapporto “terapeutico” corretto che non si fermi alla diagnosi o alla programmazione di un percorso riabilitativo, ma che diventi una vera alleanza tra le parti, finalizzata al “prendersi cura” del problema e non limitata alla semplice “cura” dei deficit.
Tale alleanza – attivata fin dai primi momenti e mantenuta nel tempo, programmata e adattata alle specifiche esigenze dei singoli soggetti – deve tenere conto delle potenzialità di coesione e solidarietà, nonché dell’insostituibilità nella conoscenza delle caratteristiche personali e socioculturali della persona con disabilità.

Quando si parla di limite nelle terapie riabilitative, si legge la parola limite come negatività, come sconfitta e non come beneficio dell’intervento. Questo è dovuto soprattutto alla tradizionale impronta del rapporto medico-paziente, dove il ruolo del medico è stato ed è ancora centrale e questo giustifica atteggiamenti restrittivi della libertà delle persone con disabilità, fino ad arrivare alla negazione stessa dell’autodeterminazione in merito a scelte fondamentali.
Questo è il cosiddetto “approccio medico alla disabilità” che vede quest’ultima come conseguenza di un danno alla salute della persona; la persona con disabilità – anzi il malato – deve affidarsi in tutto e per tutto al medico che farà del proprio meglio per “guarirlo”; dal canto suo la società deve permettere al medico di esercitare tutta la responsabilità di decisione su ogni scelta che riguarda questo “paziente a vita” e destinare quindi risorse soprattutto allo sviluppo della medicina riabilitativa e al mantenimento di strutture e personale specifico.
E rispetto a ciò – va detto in conclusione – si è arrivati spesso, per lo meno in tempi di disponibilità di risorse, ad un vero e proprio accanimento delle terapie riabilitative nei confronti di persone con disabilità fisiche che si sono viste negare la fine di tali percorsi, ottenendo la libertà dalle cure solo a prezzi esageratamente elevati.

*Intervento presentato al Convegno Il futuro della riabilitazione in Italia. Dignità della persona e tutela della famiglia, Roma, 25 febbraio 2008, a cura di ARIS (Associazione Religiosa Istituti Socio-Sanitari) e CEI (Conferenza Episcopale Italiana).

**Presidente del CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità).

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