Oltre al “compito prioritario” di essere il padre di Chiara – cerebrolesa alla nascita per mancata assistenza al parto – mi sono assegnato anche quello di responsabile del Comitato per il Diritto all’Assistenza “Cinzia Fico” (componente del comitato esecutivo della Consulta Comunale per l’Handicap del Comune di Napoli) e in quanto tale cerco di portare all’attenzione della società il problema dei disabili gravissimi, di quelli cioè che non hanno né la forza politica né la possibilità fisica di esprimersi e quindi di rappresentarsi.
E credo in questo non solo perché la legge dà teoricamente a queste persone la priorità nell’attuazione di tutti i programmi di intervento pubblico, ma anche perché quello che viene messo in campo per loro diventa poi, automaticamente, vantaggioso per tutti.
Purtroppo, sulle sorti delle famiglie che assistono un disabile gravissimo regna un silenzio ipocrita e complice. Sono anni, infatti, che esse denunciano l’incapacità e l’impreparazione del personale addetto all’assistenza domiciliare (quando c’è), trovandosi costrette, in questi casi, ad accollarsene “in alternativa” tutti gli oneri. E tuttavia a questo grido disperato e inascoltato sia le Istituzioni che le cosiddette Associazioni “storiche” continuano a rispondere con l’offerta di “una rete integrata di servizi”.
Proprio nei giorni scorsi, ad esempio, si è sentito ancora lanciare il quesito: «Per queste famiglie, prepensionamento o servizi?». Ma quali servizi? Noi continuiamo a ripetere – e lo faremo fino alla noia – che il lavoro è un diritto sacrosanto da difendere, ma che prima viene il diritto ad avere cure efficaci, proporzionate e rispondenti alle esigenze del disabile gravissimo.
Oggi le persone con disabilità gravissima presenti sul territorio nazionale sono costrette ad una sorta di “arresti domiciliari”, senza aver commesso alcun reato, a causa della totale assenza di servizi in grado di sostenerli e di garantire il loro diritto ad esistere.
Una persona cerebrolesa o un infermo in coma vigile non possono essere assistiti per un’ora al giorno da un LSU (Lavoratore Socialmente Utile) “riconvertito” grazie ad un corso di formazione. Questo metodo può funzionare per la raccolta differenziata dei rifuiti, ma non è proponibile per l’assistenza domiciliare ad un gravissimo. Quando ciò avviene, vuol dire che non si ha assolutamente idea di quale sia il problema e che si ritiene prioritario il diritto al lavoro per le cooperative di servizi anziché quello ad un’assistenza “vera” per il disabile grave.
Anche nella contrapposizione che spesso viene operata tra i servizi e il sostegno economico alle famiglie, siamo nettamente a favore della seconda soluzione, ma solo perché l’esperienza (quella fatta, non “per sentito dire”) ci ha insegnato che siamo più tranquilli quando possiamo scegliere personalmente a chi affidare i nostri cari (quasi sempre impossibilitati ad esprimersi), ciò che per noi è una grande responsabilità, non un semplice lavoro.
La famiglia, con il medesimo senso di responsabilità che ad essa viene riconosciuto dal giudice tutelare, ha il dovere di scegliere i più validi e fidati operatori/assistenti per il familiare disabile grave, specie se questi non è in grado di esprimersi e necessita di assistenza continuativa e globale per ventiquattr’ore al giorno. E siccome l’esperienza gridata dai genitori di ogni parte del Paese è la stessa, è evidente come solo loro siano in grado – al momento – di interpretare questa richiesta e di avere ben chiaro cosa significhi l’assistenza per ventiquattr’ore ad una persona con grave o gravissima disabilità.
Perché non discuterne democraticamente e umilmente, senza innalzare inutili steccati?
*Responsabile del Comitato per il Diritto all’Assistenza “Cinzia Fico”.
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