Attraverso alcuni progetti finanziati all’interno dei programmi europei Daphne I e II, DPI Italia (Disabled Peoples’ International) ha sempre posto molta attenzione ai temi che riguardano le donne con disabilità, in particolare a quelli legati alla violenza e alla violazione dei loro diritti umani in diversi ambiti, tra cui la famiglia, la sanità, il lavoro, il rapporto con l’assistente personale.
L’ultima fatica è il progetto Lighthouse – Health Institutions: A Place of Violence for Women with Disabilities? An Issue of Ethics and Human Rights, con il quale DPI ha approfondito il tema della violenza subìta dalle donne con disabilità in ambito sanitario.
Vittime completamente invisibili
Per introdurre questo delicato argomento, diamo la parola ad Annalisa Benedetti, componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare).
«La maggior parte delle persone – dice quest’ultima – quando si trova di fronte a una donna disabile vede solo la sua disabilità e più quest’ultima è evidente, più il suo “essere femminile” sembra scomparire. “Non è contemplato” che una donna disabile possa piacere, suscitare desiderio e avere rapporti sessuali, relazioni sentimentali, essere madre. Siamo perciò convinte che nell’immaginario collettivo non esista nemmeno il binomio “donna disabile-violenza”: sarebbe un paradosso che, esseri considerati privi di interesse sessuale, potessero subire abusi in tal senso. Invece accade».
«Le donne con disabilità – continua Benedetti – non solo non sono escluse dalle forme di violenza che colpiscono il genere femminile, ma restano vittime completamente invisibili dei soprusi che si consumano tutti i giorni tra le mura domestiche e in ogni contesto sociale».
La violenza riguarda tutti
Ma quante volte abbiamo sentito parlare di questo? Pochissime. Quante vittime di abusi o violenza denunciano una tale esperienza? Ancor meno.
«I meccanismi psicologici che si mettono in moto in una donna che subisce maltrattamenti e abusi – conclude Annalisa – sono complessi e delicati. È ora, però, di uscire da questo silenzio e portare alla luce un tema tanto sommerso quanto reale e dare voce a tutte le donne che non riescono a farlo, nella battaglia contro una violenza che ha radici anche culturali e sociali. Può non sembrare così, ma nulla come la violenza riguarda tutti in prima persona, essendo innata in ognuno. Tutti, dunque, possiamo contribuire a combatterla, educando all’ascolto, al confronto e al dialogo. Partendo dal contesto familiare e toccando via via tutti quei contesti sociali che abiteremo. I valori vanno testimoniati, primo fra tutti il rispetto per la vita e le persone, per promuovere la cultura dell’inclusione, delle pari opportunità e della non violenza».
Un’iniziativa di respiro europeo
Il progetto Lighthouse è dedicato a indagini sul genere e la disabilità, affrontate da una prospettiva etica, in quanto riguardano ambiti che fanno riferimento alla lesione della dignità delle persone e ai loro diritti umani.
«L’esigenza di realizzare Lightouse – spiega Rita Barbuto, direttore di DPI Italia e coordinatrice dell’iniziativa – è emersa a seguito di esperienze fatte da organizzazioni di donne disabili europee e non, che evidenziavano la presenza di forme di violenza nei loro confronti, tra cui aborti selettivi e sterilizzazioni forzate, perpetrate all’interno di strutture sanitarie. L’obiettivo del lavoro, che è stato raggiunto, era quello di creare alleanze e sinergie tra donne disabili e professioniste del settore sanitario, per individuare le aree dove le violenze vengono esercitate, identificare metodi e strumenti di prevenzione, diffondere buone pratiche, sensibilizzare e tracciare linee guida che portino all’eliminazione di simili pratiche».
All’iniziativa di respiro europeo, oltre a DPI e a un’Azienda Sanitaria italiana, hanno collaborato MEOSZ, Federazione Ungherese di Persone con Disabilità, COCEMFE–FAMA, Federazione Spagnola di Persone con Disabilità Fisica, ONPHR, Organizzazione Nazionale Romena di Persone Disabili e SOIH, Organizzazione Croata di Persone con Disabilità.
«Le donne con disabilità che subiscono trattamenti violenti – continua Barbuto – devono acquisire maggiore consapevolezza rispetto a quanto accade loro quando si imbattono in personale sanitario inadeguato a rapportarsi correttamente con i loro corpi, anche alla luce del fatto che non esistono strumenti legali efficaci per modificare i comportamenti attuati nei loro confronti. Esse devono rendersi conto di essere maggiormente esposte, sia rispetto alle altre donne sia rispetto agli uomini con disabilità, a pratiche eugenetiche, volte a ledere la loro dignità e i loro diritti umani alla libertà e all’autodeterminazione».
Fonti di ricchezza reciproca
Chiaramente una condizione di maggiore povertà – in cui manchino gli strumenti socio-economico-culturali e ove le donne con disabilità vengano isolate e segregate – non può che alimentare la loro debolezza nella società.
«Stiamo andando – conclude la coordinatrice di Lighthouse – verso una società in cui la ricerca scientifica rischia di creare nuove discriminazioni rispetto a coloro che non rispondono ai suoi standard. Un’eugenetica che pretende di fondarsi sul valore del miglioramento della qualità della vita di tutti, per perseguire invece i fini di sempre. Esiste ancora oggi un filone di pensiero secondo cui l’aborto selettivo “è un dovere”, poiché un neonato con disabilità sarebbe solo una sofferenza, oltre che un impegno socio-economico molto gravoso, per l’intera società. Da ciò si intende quanto sia ancora lungo il percorso da fare. Non siamo ancora in grado di comprendere, infatti, che garantire la migliore qualità della vita possibile a tutti – quindi anche a chi è disabile – significa riconoscere quest’ultimo nei tratti unici e soggettivi della sua persona, con pregi, difetti, bisogni e cose da dare proprio come tutti gli altri. Egli ha quindi il diritto di esserne parte integrante e inclusa, non “un soggetto da curare”, se non addirittura “da eliminare”. Considerando, insomma, la disabilità e le differenze che ci caratterizzano come fonti di ricchezza reciproca».
*Testo tratto dal n. 165 (marzo 2008) di «DM», periodico nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), qui riprodotto per gentile concessione di tale testata.
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