Bagni per tutti? No, grazie

di Giulio Nardone*
Il concetto di pari opportunità non coincide necessariamente con quello di egualitarismo, ovvero i problemi non si risolvono negando la diversità, ma cogliendo esattamente ciò che avvicina le persone con disabilità alle altre e ciò che le differenzia in concreto e che va preso in considerazione per apprestare le misure di volta in volta necessarie. Ed è quanto si dovrebbe ricordare anche per i servizi igienici dei locali pubblici...

Espressione di profilo pensierosaIn pochi decenni si è passato da un completo apartheid delle persone con disabilità – ghettizzate, nascoste e spesso negate dagli stessi familiari – a una volontà generalizzata, anche se spesso soltanto proclamata in astratto, di omologare, di voler considerare i disabili del tutto uguali ai normodotati e addirittura più dotati di questi ultimi.
Ne sono esempi la maggiore sensibilità, la “luce dell’anima” che nei ciechi sostituirebbe la vista mancante, addirittura facendo aggio su di essa. Di qui anche la negazione di una minorazione o minore abilità, sostituita dall’ipocrita “diversa abilità” dell’odierno politically correct.
Questa tendenza a parificare le persone con disabilità rispetto a quelle senza disabilità – figlia dei sensi di colpa di queste ultime – è stata per un certo periodo accolta e adottata anche dai disabili e dai loro familiari, che da ciò hanno tratto conforto e gratificazione.
Tutto ciò naturalmente prescinde dall’ovvia considerazione che le categorie della “normalità” e dell'”anormalità” sono concetti relativi e che non hanno confini netti e ben definiti. Recentemente, per altro, sembra timidamente iniziata un’inversione di tendenza presso i disabili, che stanno cominciando a rendersi conto che la negazione o la minimizzazione della loro situazione di difficoltà e di disagio diventa un comodo schermo per porre al riparo la coscienza dell’opinione pubblica e degli addetti ai lavori.
Conseguentemente, già da qualche anno le associazioni delle diverse categorie di persone con disabilità hanno iniziato un’attività di contrasto nei confronti dell’ipocrisia del “diversamente abile”, come anche di sostegno della piena liceità dell’uso del termine “cieco” e dell’uso di “non vedente” solo come sinonimo e non come unico termine corretto. E ciò non ha un valore unicamente terminologico, dato che significa anche riconoscimento coram populo dell’esistenza di una diversità che va affermata, analizzata nelle sue conseguenze e posta alla base dei provvedimenti necessari a minimizzarne gli effetti negativi.
Questa nuova tendenza, lungi ancora dall’essere molto diffusa presso le persone con disabilità e i loro familiari e ancor meno presso l’opinione pubblica, è comunque un segno di maturità, di quell’accettazione della situazione di fatto che è il presupposto necessario per abandonare il comodo ma sterile rifugio dell’autocommiserazione e rendere operante una volontà di reazione e di riscatto.

Ma veniamo all’evento che mi ha indotto a mettere sulla carta le considerazioni che precedono. Nel corso di un recente convegno su SicurezzAccessibile, svoltosi a Trieste [Sicurezzaccessibile – La sicurezza delle persone con disabilità: buone prassi tra obblighi e opportunità, Trieste, 30 aprile 2008, N.d.R.] è emersa, quasi come una scoperta dell’ultima ora, l’idea che non si debbano creare servizi igienici H, e cioé riservati ai disabili, ma che questi debbano utilizzare quelli “per tutti”, opportunamente allargati e attrezzati, e ciò in nome di una volontà di non ghettizazione e di non discriminazione. Donde un titolo giornalistico che recitava: Bagni per disabili? No, per tutti, che io intenzionalmente ho capovolto.
Temo che non vi sia argomento meno adatto di questo a voli pindarici e a dissertazioni sociologiche e ritengo anche che le parafrasi e i sottintesi dettati dalla decenza vadano evitati, dato che se si vuole parlare di ciò che è necessario per l’utilizzo dei cessi da parte di persone con disabilità, bisogna necessariamente rinunciare a parlare dell’impollinazione dei fiori, come si fa talora con i bambini per spiegare situazioni che di floreale non hanno nulla. Parliamo quindi di situazioni concrete con termini concreti.

Quando si tratti di un singolo servizio igienico presente in un esercizio commerciale o in un’altra struttura, è evidente che le ragioni di risparmio di spazio suggeriscono di creare un gabinetto accessibile a tutti, magari con la classica differenziazione tra uomini e donne, sempre che lo spazio disponibile lo consenta.
Se è presente un antibagno, anche questo dev’essere dotato di serratura, in quanto l’uso di entrambi i locali va riservato ad una persona per volta. Infatti, se il servizio igienico dev’essere concretamente accessibile per tutti, bisogna considerare che alcune persone hanno una disabilità che li costringe a doversi avvalere dell’assistenza di un accompagnatore almeno per le fasi preliminari dell’utilizzo dei sanitari; questo assistente può essere dello stesso sesso del disabile, ma, se si tratta di un familiare, può benissimo essere di sesso opposto.
Se è presente dunque una sola unità di servizio, non si pone alcun problema, purché, come si è detto, anche l’eventuale antibagno sia dotato di serratura, dato che in questo possono svolgersi operazioni di svestizione o vestizione.
Se invece sono presenti servizi igienici distinti per sesso, dovrebbe essere intuitiva la scelta di utilizzare il servizio corrispondente al sesso della persona con disabilità, ferma restando la possibilità di chiusura dell’eventuale antibagno.

Bagni pubbliciIl problema comincia a sorgere quando si sia in presenza di corpi di servizi igienici situati in strutture a grande ricettività, come supermercati, grandi o medie stazioni ferroviarie, aeroporti ecc. In tali situazioni le soluzioni finora adottate si possono ricondurre fondamentalmente a due tipologie.
La prima prevede due grandi antibagni dotati di lavabo e una serie di cubicoli per le funzioni corporali, una struttura per gli uomini e un’altra per le donne e poi, esternamente e con accesso diretto dall’esterno, due servizi attrezzati per disabili, uno per sesso.
Questa è sicuramente la soluzione concretamente più efficace, perché consente all’assistente – dello stesso sesso o di sesso diverso – di entrare senza problemi nel locale o, se ciò è sufficiente, di mostrare – ad esempio al cieco – l’esatta posizione dei vari oggetti per poi uscire di nuovo.
La seconda tipologia, frutto del politically correct, prevede che in ciascuna delle due strutture “sessuate” tutti i cubicoli siano sufficientemente ampi e attrezzati per le disabilità.
Questa soluzione, oltre a necessitare di una superficie globale ben maggiore, è quella che è solo apparentemente “corretta”, dato che pone una coppia mista disabile-assistente di fronte ad un problema irrisolvibile: o l’assistente uomo accompagna la disabile nella sezione femminile, dovendo attraversare una zona in cui possono trovarsi delle signore in desabillé, oppure la accompagna nella sezione maschile, in cui la disabile potrebbe dover assistere ad operazioni anche più imbarazzanti da parte dei signori maschietti. A ruoli invertiti fra assistente e disabile accade la stessa cosa.

Lo stesso problema si presenta quando in ciascuna struttura “sessuata” sia presente un solo servizio igienico per disabili. A me, cieco assoluto, è capitato più di una volta di poter essere accompagnato da mia moglie soltanto all’ingresso della struttura maschile e di dovermi poi aggirare in cerca di un cubicolo libero, magari andando a toccare con il bastone le gambe di signori intenti in operazioni riservate.
Anche quando in tali situazioni sono stato indirizzato da qualche anima buona alla porta del bagno H, poi, per la mancanza della mappa tattile che dovrebbe descrivere la posizione interna dei sanitari e dei vari distributori, sono stato costretto a strusciare tutte le pareti e le altre superfici presenti, cosa certamente poco simpatica e altrettanto poco igienica.

C’è ancora un altro argomento che sconsiglia l’adozione del “bagno per tutti“. Anche se sono stati fatti dei grossi progressi rispetto a qualche decennio fa, non si può dire che il senso civico e l’igiene siano virtù molto diffuse presso i nostri concittadini. Ciò comporta che un uso più intensivo di un servizio igienico aumenta notevolmente le probabilità che esso non sia perfettamente pulito; è quindi preferibile per noi disabili utilizzare un servizio igienico meno frequentato, anche in considerazione del fatto che, sia per problemi di difficoltà motorie, che per difficoltà visive, siamo costretti ad appoggiarci o a toccare molto di più rispetto a persone senza disabilità.

Un ultimo accenno merita ancora, a mio parere, il discorso della distinzione dei servizi igienici H a seconda dei sessi. Tale distinzione, sicuramente diffusa in tutto il mondo, è senz’altro opportuna in presenza di antibagni, nei quali la promiscuità sarebbe inammissibile o almeno imbarazzante. Ma quando ci si trova in un piccolo ristorante che può disporre solo di pochi metri quadri per i servizi igienici, penso che non sarebbe da disapprovare la costruzione di un solo locale, questo sì per tutti, disabili o non, maschi o femmine. E ciò, sia in considerazione del fatto che la disabilità in alcuni casi fa diminuire anche le differenze nelle modalità di utilizzo dei sanitari, ma anche del fatto che in un tale contesto sono meno giustificate le ragioni che suggerivano alle signore di non utilizzare servizi igienici sulle cui pareti potevano trovare graffiti poco simpatici.
Per gli stessi motivi non mi sembrerebbe disdicevole che i servizi igienici per disabili con accesso indipendente dall’esterno non venissero necessariamente distinti fra i due sessi.

*Presidente nazionale dell’ADV (Associazione Disabili Visivi); coordinatore nazionale Universal Design – FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).

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