Una sentenza europea sulla discriminazione nel lavoro

Importante il principio sancito dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, relativo ad un caso di discriminazione nei confronti di una signora inglese, madre di un bimbo con grave disabilità. In base infatti alla Direttiva Comunitaria sulla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro, si è stabilito che il divieto di discriminazione non riguarda solo la persona con disabilità, ma anche il lavoratore che abbia subito un trattamento disuguale, proprio a causa della disabilità del figlio

Ragazzo con disabilità accompagnato dalla madre«Il divieto di discriminazione, secondo la direttiva sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (2000/78/CE), non è limitato alle sole persone con disabilità, in quanto il diritto comunitario tutela anche il lavoratore che abbia subito una discriminazione fondata sulla disabilità del figlio». Lo ha sancito la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, confermando un precedente pronunciamento dell’avvocato generale Poiares Maduro.

Il caso specifico riguarda la madre di un bambino con grave disabilità, nato nel 2002, impiegata dal gennaio 2001 presso uno studio legale di Londra.
Il 4 marzo 2005 la signora aveva accettato di rassegnare le proprie dimissioni, presentando poi – il 30 agosto dello stesso anno – un ricorso al Tribunale del Lavoro inglese (Employment Tribunal), nel quale sosteneva di essere stata vittima di un licenziamento implicito e di un trattamento meno favorevole rispetto ai colleghi, in ragione del fatto di avere un figlio con disabilità a proprio carico.
In sostanza la signora ritiene di essere stata costretta a smettere di lavorare e a sostegno del proprio ricorso ha citato vari eventi, configurabili come discriminazione, in quanto – in circostanze analoghe – i genitori di bambini non disabili erano stati trattati in maniera diversa.
Ad esempio, si parla del rifiuto, da parte del datore di lavoro, di reintegrare la persona, al ritorno dal congedo per maternità, nel posto precedentemente occupato e del diniego a concederle una flessibilità nell’orario di lavoro, oltre che di commenti sconvenienti e ingiuriosi espressi sia nei suoi confronti che nei confronti del figlio.

Secondo la Corte di Giustizia della Comunità Europea, dunque – presso la quale il caso è stato successivamente portato – la citata Direttiva 2000/78/CE, volta a combattere ogni forma di discriminazione, va applicata non solo in relazione ad una determinata categoria di persone, quali i disabili, bensì sulla base della natura della discriminazione. Un’interpretazione, infatti, che ne limitasse l’applicazione alle sole persone con disabilità rischierebbe di privare la Direttiva stessa di una parte importante del suo effetto utile e di ridurre la tutela che essa dovrebbe garantire.
La Corte ha stabilito quindi che la Direttiva dev’essere interpretata nel senso che il divieto di discriminazione diretta non va limitato alle sole persone con disabilità e di conseguenza, qualora un datore di lavoro tratti un dipendente in modo meno favorevole rispetto ad un altro in situazione analoga, e sia provato che ciò è causato dalla disabilità del figlio, per le cure di cui quest’ultimo ha bisogno, tale trattamento viola il divieto di discriminazione diretta enunciato nella Direttiva.

Riguardo infine alle molestie subite dalla signora inglese, la Corte ha adottato un ragionamento uguale, affermando che anche qui le disposizioni della Direttiva non sono limitate alle sole persone con disabilità.
Una volta accertato quindi che il comportamento indesiderato integrante le molestie del quale è vittima un lavoratore in una situazione come quella della signora citata, è connesso alla disabilità del figlio, tale comportamento viola il divieto di molestie enunciato nella Direttiva.

Si ringrazia «Redattore Sociale» per la segnalazione.

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