A chi serve una scuola pubblica come quella che va delineandosi in questi giorni? A questo proposito è indispensabile una premessa che apparirà sgradevole a qualcuno: la scuola pubblica è servita, serve e servirà sempre a quanti non possono (o non vogliono) affidare l’istruzione dei propri figli alle scuole paritarie e private.
Non è necessario ricordare che tra i diritti che la Costituzione riconosce ai cittadini, quello all’istruzione viene innanzitutto garantito dal sistema scolastico pubblico. Tutto quanto è successivamente intervenuto, dalla legge sulla parità scolastica varata dal Governo D’Alema ai buoni sconto per la scuola paritaria del ministro Moratti, ha rappresentato un utile viatico per decifrare cosa accadrà nel prossimo futuro.
Ovvero una riduzione generalizzata delle ore di frequenza scolastica nella scuola dell’obbligo, il ritorno all’insegnante unico nella scuola primaria, la riduzione del numero di classi con aumento concomitante del numero di alunni.
E ancora: determinazione del numero di insegnanti di sostegno indipendente dal numero di alunni disabili, riduzione del numero di insegnanti e del personale ATA [Ausiliario Tecnico Amministrativo, N.d.R.] di 150.000.
Tutto questo accade in un sistema scolastico pubblico che accoglierà il prossimo anno circa 580.000 alunni stranieri e 190.000 alunni disabili; un sistema caratterizzato dalla presenza di almeno il 50 per cento degli edifici scolastici in condizioni precarie (il 90 per cento dei quali al Sud) e con una scuola a tempo pieno garantita solo al 5 per cento degli alunni meridionali contro il 30 per cento di quelli delle Regioni del Centro-Nord.
Forse il ministro Gelmini invece di raccontare agli italiani la storiella del grembiule come elemento di socializzazione o affannarsi a reintrodurre l’educazione civica nei programmi, avrebbe fatto bene a raccontarci altro. Farebbe bene a descrivere alle famiglie italiane come immagina tra qualche anno le scuole pubbliche, se, come ormai è evidente, sarà possibile trasformarle in fondazioni.
Dove questo accadrà lo intuisce chiunque, quale parte del Paese ha il tessuto economico che potrà “sostenere” le scuole-fondazioni è evidente; quanto questo determinerà un’ulteriore stratificazione nel sistema scolastico italiano è una certezza alla quale una buona politica dovrebbe porre attenzione e fare scelte conseguenti.
Purtroppo, quando si mette in discussione continuamente la struttura unitaria del Paese, come accade da parte di rappresentanti del Governo, o quando si prospetta una struttura federalista che non tenga conto delle enormi differenze socioeconomiche preesistenti, si commette quello che don Milani definiva una grave ingiustizia: «Fare parti eguali tra diseguali».
Cosa abbia in mente il ministro Gelmini, quando definisce per decreto legge – strumento criticabile e inopportuno, vista la complessità della materia – una serie di trasformazioni così profonde nella scuola primaria, è un mistero o non lo è per nulla.
Sgomenta la totale incapacità di una visione complessiva del sistema scolastico, incapacità nel prevedere che provvedimenti come quelli sopra enunciati possano determinare progressivamente una perdita di qualità dell’istruzione nell’unico “pezzo” di scuola, quello della primaria per l’appunto, che viene considerato “il fiore all’occhiello” del nostro ordinamento scolastico.
Questa incapacità può al contrario essere espressione di una nitida volontà di affondare, a colpi di sciabola, il sistema scolastico pubblico. Si dica chiaramente, allora, che la scuola pubblica dovrà diventare una “scuola di serie B” nelle regioni meridionali, si dica che i bambini disabili non riusciranno più a frequentarla perché privati di ore di sostegno e di formazione adeguata, si affermi che per i bambini immigrati le possibilità di integrazione sono ridotte al lumicino.
*Associazione Tutti a Scuola. Testo già pubblicato dal quotidiano «la Repubblica» (Cronaca di Napoli) e qui riproposto per gentile concessione.
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