Non è da tutti venire proiettati nelle sale della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, soprattutto quando, essendo italiani, non si è un nome almeno un po’ noto o non si viene presentati da una delle principali case di produzione o distribuzione nostrane.
Mirko Locatelli, classe 1974, produttore di se stesso insieme alla moglie Giuditta Tarantelli, con cui co-sceneggia, ce l’ha fatta. Il suo primo lungometraggio, Il primo giorno d’inverno, ha partecipato infatti al concorso della Sezione Orizzonti nell’appena conclusa sessantacinquesima mostra lidense.
«Un giorno riceviamo una telefonata. Ci dicono: “Sareste stati selezionati nella Sezione Orizzonti”. È stato un giorno assurdo, eravamo fuori di noi», ricorda Locatelli, a proposito del quale in Superando.it si è già scritto più volte. Infatti, il debutto assoluto dell’autore milanese risale al 2004 con Come prima, mediometraggio sulla disabilità dal plot autobiografico: il protagonista, infatti, così come il regista, diventa tetraplegico a seguito di un incidente in motorino all’età di diciassette anni.
Nel nostro sito abbiamo anche presentato il documentario del 2005 Crisalidi, che raccoglie una serie di interviste a un gruppo di adolescenti sul tema della disabilità. Inoltre, Locatelli è da due anni direttore artistico della Mediateca LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità) (sua moglie Giuditta è responsabile della comunicazione per la stessa), a proposito della quale ci dice: «Il nostro compito è quello di scegliere i film da acquisire e proporre delle attività di sensibilizzazione attraverso lo strumento cinematografico che riteniamo una della arti più complete, in grado di arrivare ai cuori in modo diretto (anche se, ovviamente, ci sono film incapaci di raggiungere tale obiettivo). Per questo è importante che anche la disabilità venga trattata al cinema, perché si possono raggiungere in modo diretto molte persone».
A Venezia, Locatelli approda con una storia ancora una volta dedicata all’adolescenza degli emarginati, scegliendo questa volta di trattare i temi del bullismo e dell’omosessualità con un linguaggio ripetitivo, essenziale e sottotono che presume di comunicare più di quello che, almeno a noi, è poi in effetti arrivato. Le scelte registiche, di contenuto e di forma, della coppia Locatelli-Tarantelli sono esplicite e rigorose. I loro riferimenti, come dichiaratoci dallo stesso regista, guardano soprattutto a certo cinema francese (da Truffaut ai belgi fratelli Dardenne).
«Per noi il cinema è reale e sociale. Non ci interessa l’intrattenimento fine a se stesso, anche se purtroppo di prodotti del genere ce ne sono molti. L’Italia ha dimenticato la funzione sociale del cinema e finché non riuscirà ad alzare lo sguardo “oltralpe” non uscirà dalla sua crisi».
Cosa intendi per “funzione sociale” del cinema?
«Non mi riferisco a una funzione educativa ma alla sua capacità di raccontare storie che altrimenti lo spettatore avrebbe difficoltà a capire o non avrebbe voglia di considerare».
Critichi il cinema italiano dichiarando di presentare una proposta diversa. In che cosa riconosci la tua peculiarità?
«Nella sincerità con cui scrivo le storie insieme a mia moglie. Cerchiamo il piacere di raccontare in assolutà libertà quello che ci piace e ci interessa senza scendere a compromessi per aggraziarci il pubblico».
Per mantenere questa condizione, sarai disposto a rinunciare anche a eventuali offerte da parte di case di produzione importanti?
«Accetterei solo a condizione che la mia libertà creativa venisse rispettata».
Come avete scelto il tema del vostro debutto al lungometraggio?
«A me e a Giuditta interessa parlare di esclusione. Siamo sensibili al tema dell’emarginazione, della diversità. Parlare degli adolescenti ci permette di affrontare questi argomenti perché per loro la tensione è quella di venire accettati dal gruppo e spesso si tratta di un percorso difficile, che lascia per strada molte “vittime”. Infatti, per essere accettati, è loro chiesto di rientrare in alcuni canoni prefissati, legati in particolare alla prestanza fisica e sessuale».
Il primo giorno d’inverno racconta la storia di Valerio, interpretato da Mattia De Gasperis, che non riesce a integrarsi nel gruppo dei suoi coetanei, dai quali viene sbeffeggiato ed escluso. Da vittima, il protagonista si trasformerà in carnefice, decidendo di uscire dall’atteggiamento apatico che lo caratterizza tramite la messa in atto di un ricatto. Infatti, egli spia alcuni scambi omoerotici tra due giovani e, minacciando di ridicolizzarli in pubblico, si fa prestare i loro motorini, finché uno dei due, incapace di reggere la situazione, si suiciderà.
Nella prima parte dell’opera, i personaggi vengono introdotti soprattutto tramite una descrizione ossessiva e personale dei loro corpi in spogliatoio, nella piscina in cui praticano nuoto e davanti allo specchio. Poi l’intreccio si svolge con tono raffreddato e statico, attraverso una recitazione volutamente apatica, la rinuncia all’approfondimento psicologico dei personaggi – ai cui gesti e alle cui scelte ci è risultato di conseguenza più difficile credere – e uno stile registico essenziale, fatto di inquadrature lunghe, piani sequenza o piani fissi dentro cui gli attori entrano, svolgono la scena e, infine, escono: «Protagonisti diventano così i luoghi, che per me sono importanti», ci spiega Locatelli.
Gli chiediamo di raccontarci come abbia lavorato con gli attori.
«Ci siamo incontrati tre volte alla settimana per quattro mesi e abbiamo costruito insieme i ruoli. A quelli i cui personaggi intrecciano relazioni affettive ho chiesto di conoscersi più a fondo e, al contrario, ho invitato quelli i cui personaggi hanno una relazione conflittuale a rinunciare a frequentarsi. Ho poi fatto loro una richiesta di recitazione un po’ fuori dal comune. Infatti, mi innervosisco a guardare la recitazione standard del cinema italiano, che assomiglia sempre più a quella delle fiction televisive, fatta di gesti eclatanti e stereotipati, dove per esprimere la rabbia “si spacca qualcosa” e per esprimere il nervosismo “si fuma”. Siamo talmente abituati a questo linguaggio che ci aspettiamo da ogni film una scena di sesso, una bella ragazza che a un certo punto chiede “ma cosa sta succedendo?”, l’innamoramento descritto con l’immancabile campo-controcampo di sguardi, e così via. Chi guarda il mio film potrebbe pensare che gli attori non sappiano recitare, invece non è così. Ho chiesto loro umiltà, ho chiesto loro di mettere in scena la vita vera, “togliendo” tutto il resto».
Sul set come lavori? Quali sono le caratteristiche della tua creatività?
«Abbiamo girato per diciassette giorni precisi. Arrivavo sul set con gli attori un’ora prima di cominciare e ci ambientavamo insieme. Poi trovavo al momento le inquadrature discutendole con Ugo Carlevaro, il direttore della fotografia, per accordarne la fattibilità. Spesso ho fatto prove girate, perché mi sono accorto che talvolta superano in spontaneità la recitazione dei ciak “ufficiali”».
La disabilità ha influenzato a livello pratico la tua carriera di regista?
«A parte che per i contenuti – e mi riferisco ai primi lavori che la trattano direttamente perché per me si può parlare solo di ciò che si conosce e quindi o di ciò che si vive in prima persona o di ciò che si è studiato approfonditamente – a livello pratico, quando ho inziato la mia carriera, ho sperimentato subito se per me fosse possibile dirigere un film e in che modo. Infatti, essendo io tetraplegico, non posso reggere una telecamera né guardare nell’obiettivo. Inoltre, per fare il montaggio, tengo in bocca una bacchetta con cui schiaccio i tasti del Macintosh. Insomma, ho trovato il mio modo per fare il mestiere che mi piace».
Hai poi dovuto affrontare la limitatezza del budget, non avendo alle spalle una grossa casa di produzione. Com’è stato realizzare un film indipendente?
«Il film è costato 150.000 euro, messi in parte da Officina Film, la mia casa di produzione, in parte dal co-produttore Piero De Vecchi e in parte dalla Provincia di Milano. Siamo riusciti a pagare, se pur poco, il cast e a sostenere le altre spese di produzione e postproduzione. Abbiamo girato in HD con la Varicam, una telecamera digitale molto elaborata che permette una resa paragonabile a quella della pellicola. Poi abbiamo riversato tutto in 35 mm. Ora incrociamo le dita sul destino del nostro lavoro, in cui crediamo molto e a cui abbiamo dedicato i nostri tre ultimi anni, in modo che gli sforzi possano venire ripagati».
A quale mercato vi rivolgete in particolare?
«Puntiamo soprattutto alla Francia, sia per trovare eventuali futuri produttori sia per quanto riguarda la distribuzione. Infatti ci ispiriamo al loro cinema e siamo contenti di essere stati selezionati per il Festival Internazionale del Cinema Mediterraneo di Montpellier».
Generalizzando un po’, come ti sembra che sia stato trattato finora il tema della disabilità al cinema?
«In generale individuo spesso due ordini di problemi. Di solito il disabile viene tratteggiato come “un supereroe” o in modo pietistico. In entrambi i casi egli è depositario di una filosofia di vita da consegnare al pubblico. Mi viene per altro in mente un lavoro che riesce a superare questa impostazione, che è Un silenzio particolare, il documentario dello sceneggiatore Stefano Rulli». (Barbara Pianca)