Nel suo blog il noto giornalista e conduttore televisivo Gad Lerner parla di spettatori dimezzati nella puntata del programma L’infedele dedicato al tema Eluana anima prigioniera – andato in onda lunedì 27 su La7 – e della fuga del pubblico non più abituato a rapportarsi col dolore se non in forma di fiction.
Credo che questa sia un’analisi sbagliata. Il pubblico, infatti, si appassiona alle storie direttamente raccontate dai protagonisti, da chi le vive sulla propria pelle e non può certamente appassionarsi con uguale intensità alla teorizzazione del dolore, alle dissertazioni teologiche, a tesi preconcette, anche se discusse con garbo e competenza.
E al dibattito dell’Infedele, l’altra sera, mancavano proprio i protagonisti. Mancavano cioè i fisiatri, gli operatori sanitari e non, mancavano le associazioni, mancavano le famiglie, mancavano le persone in stato vegetativo e quelle risvegliate dal coma che ce l’hanno fatta (che per fortuna sono tante).
Gli operatori dell’informazione e della televisione dovrebbero interrogarsi su questo, fare proposte per far sentire la pluralità delle voci del dibattito e capire quando un argomento è stato presentato con troppa ripetitività.
Non è più possibile – con tutto il rispetto per la vicenda umana – appiattirsi sul personaggio Beppino Englaro e continuare a parlare della “dignità di fine vita”, senza prima parlare del “diritto alla cura e all’assistenza”.
Bisognerebbe farlo per par condicio, per onestà e completezza dell’informazione.
Si sta inoltre diffondendo nell’opinione pubblica, grazie anche a trasmissioni come quella dell’altra sera, l’errata convinzione che oramai essere in stato vegetativo vuol dire per le famiglie restare al capezzale di un malato terminale, in un ambiente invivibile, dove la depressione e il desiderio di farla finita rappresentano la compagna di tutte le ore, per tutti i giorni ancora destinati a vivere. Questo non è vero e per fortuna non tutti la pensano come Beppino Englaro.
Ci sarà qualcuno nella televisione italiana disposto a chiamare in trasmissione le associazioni, le famiglie, gli operatori che giornalmente vivono il problema, per far sentire anche la loro voce?
Bisognerebbe che la televisione fosse più coraggiosa, che i vari Vespa, Mentana, Costanzo, Santoro, Floris, lo stesso Lerner (per citarne alcuni) si interrogassero se poi sia così pericoloso rappresentare quella parte del Paese che, vivendo in condizioni simili ad Eluana, si sente chiamata in causa per le ripercussioni che il suo caso potrà avere su di loro e sente di non essere rappresentata.
Credo che il dibattito si accenderà di nuovo dopo l’11 novembre [data fissata dalla Corte di Cassazione per l’udienza a sezioni unite durante la quale si deciderà sul caso Englaro, N.d.R.], ma, mi si creda, tutti i giorni le famiglie vivono la quotidianità del disagio e non dovrebbe esserci bisogno di legittimare la propria esistenza per fare sentire la propria voce. Queste voci esistono, sono presenti, basta soltanto avere il coraggio di raccontarle. E volerlo fare.
*Direttore del Centro Studi per la Ricerca sul Coma – Gli Amici di Luca nella Casa dei Risvegli Luca De Nigris – Azienda USL di Bologna.
Articoli Correlati
- L'integrazione scolastica oggi "Una scuola, tante disabilità: dall'inserimento all'integrazione scolastica degli alunni con disabilità". Questo il titolo dell'approfondita analisi prodotta da Filippo Furioso - docente e giudice onorario del Tribunale dei Minorenni piemontese…
- La vicenda di Eluana Englaro: altre opinioni Mentre gli organi d'informazione producono sondaggi che fanno ulteriormente riflettere sulla vicenda di Eluana Englaro - persona in coma da sedici anni, per la quale nelle scorse settimane Corte d'Appello…
- Sordocecità, la rivoluzione inclusiva delle donne Julia Brace, Laura Bridgman, Helen Keller, Sabina Santilli. E poi Anne Sullivan. Le prime quattro erano donne sordocieche, la quinta era “soltanto” quasi completamente cieca, ma non si può parlare…