Tra le notizie che si susseguono – diverse ma per certi versi sempre uguali – in questi giorni sta passando sotto traccia un messaggio potenzialmente molto pericoloso, quello cioè che riguarda la possibilità da parte di un’azienda – la CAI, nuova Compagnia Aerea Italiana – di scegliere i lavoratori discriminandoli in base all’esistenza nel loro nucleo familiare di una persona con disabilità [il nostro sito se n’è occupato con il testo intitolato Né i disabili né i loro familiari nella nuova Compagnia Aerea Italiana, disponibile cliccando qui, N.d.R.].
Se la forza contrattuale e la solidità di un’azienda si dovessero misurare con la visibilità mediatica, certamente la CAI potrebbe affrontare e vincere qualunque sfida. Infatti, sebbene non abbia ancora fatto decollare neppure un aereo superleggero, tale compagnia sembra capace di essere davvero determinante nel panorama della comunicazione di massa.
Non ne sono certa, ma si tratta forse dell’azienda il cui nome viene più frequentemente pronunciato nei telegiornali e, se l’importante è parlarne, non si può dire che l’obiettivo di entrare nelle nostre case sia stato mancato.
La più recente puntata della più famosa “telenovela imprenditoriale italiana”, si potrebbe titolare Oggi negoziamo la discriminazione, dato che nelle proposte della compagnia ai sindacati, troviamo anche la possibilità di utilizzare tra i vari criteri per individuare i lavoratori da non assumere, quello dell’esistenza di un familiare disabile.
Non essendo esperta di problemi sindacali, lascio a qualcuno più competente di me il commento sulla sostanza di una simile proposta. Immagino che un lavoratore che si avvale dei permessi previsti dalla Legge 104/92 sia oggettivamente più costoso oltre che di più difficile gestione. Pensavo però che si trattasse di un diritto acquisito, proprio perché in questo caso c’è stato bisogno di una legge affinché gli interessi del datore di lavoro fossero posti in subordine, rispetto a quelli della persona con disabilità, di potersi fare assistere dai propri familiari.
Non è dunque nel merito giuridico che voglio entrare; quello che più mi preoccupa è la comunicazione implicita che sta passando, rispetto alla legittimità da parte di un’azienda di fare oggetto di contrattazione la possibilità stessa di discriminare una persona, per motivi di disabilità.
Infatti, il messaggio mediatico che passa, a prescindere dalle varie posizioni che l’ascoltatore può assumere nell’essere d’accordo o meno con questa proposta, è che sia possibile, in questo Paese, utilizzare un criterio di scelta che abbia proprio questa tra le sue variabili.
Il messaggio implicito è che si può scegliere, e magari anche tranquillamente dichiarare, di discriminare una persona in base alla sua disabilità, come se fosse una tra le varie legittime opzioni a disposizione della politica aziendale.
Sul piano della comunicazione, c’è spesso una dissonanza tra gli alti valori sociali che si vorrebbe veicolare riguardo ai diritti e alla condizione di disabilità come possibile diversa normalità, e gli “scantonamenti” continui nella narrazione di storie individuali, che paiono sempre vere e proprie eccezioni, pervase come sono di sensazionalismo. Le credenze generali dell’immaginario collettivo sulla disabilità sembrano invece mutuate più dai messaggi impliciti che da ogni altra cosa.
E l’efficacia di un messaggio implicito può essere molto alta, proprio perché colui che lo riceve non ha la possibilità di attivare consapevolmente un giudizio critico su di esso. Questo fa sì che alcune comunicazioni implicite possano agevolmente radicarsi, trasformandosi in “credenze”, appunto, che fanno parte degli schemi automatici di percezione sociale.
Di fronte a tutto ciò, appare inutile e anche un po’ ridicolo focalizzarsi su quale possa essere il messaggio da mandare per qualche secondo al giorno, nella speranza di contribuire in qualche modo alla civiltà del nostro Paese.
A volte, infatti, ci sforziamo di comprendere quale possa essere il mezzo più efficace (convegno, pubblicazione, comunicato stampa, conferenza stampa, manifestazione, eccetera), per far passare attivamente la cultura delle pari opportunità e della non discriminazione.
Dal canto loro i dirigenti della televisione pubblica si impegnano nei loro documenti ufficiali a introdurre artificiosamente nei programmi queste tematiche, impegni che nella maggior parte dei casi si concretizzano nella drammatizzazione di storie più o meno lacrimevoli, più o meno buoniste, di dubbia efficacia rispetto alle pie intenzioni.
Forse invece dovremmo focalizzare la nostra attenzione proprio su tutti quei messaggi sottilmente presenti che concorrono potentemente a conservare e anzi a consolidare la cultura della discriminazione come possibile modo di pensare.
A puro titolo di provocazione, se volessimo essere coerenti con l’immagine pubblica che si riflette dai più potenti mezzi di comunicazione circa le persone con disabilità, le associazioni di queste ultime potrebbero proporre un referendum abrogativo della Legge 67/06 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni), della quale quasi nessun italiano conosce neppure l’esistenza, in modo tale da rendere perfettamente legittima la proposta della CAI.
E ciò con buona pace dei sindacati e dell’opinione pubblica la quale, con tutti i messaggi espliciti e subliminali che continuano a passare, potrebbe ritenere perfettamente possibile l’essere discriminati in base alla propria disabilità o a quella di un familiare, ciò che appare confermato dal fatto che nessuno tra gli intellettuali o gli opinionisti ha gridato allo scandalo.
Con buona pace, infine, anche del vecchio, molto citato e molto trascurato, articolo 3 della nostra Costituzione.
*Psicologa e psicoterapeuta.
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