La sessualità è uno degli aspetti fondamentali della vita di ogni persona sin dalla nascita. In Italia il tema dell’affettività e della sessualità delle persone disabili ha iniziato ad essere oggetto di riflessione e di studio a partire dagli anni Settanta. Da allora molto è stato detto, scritto e fatto.
Eppure, ancora oggi, molte persone con disabilità trovano parecchi ostacoli nella costruzione di una propria identità sessuale e nell’espressione della stessa. Come Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Musclare), pensiamo che sia importante e utile approfondire alcuni aspetti della sessualità delle donne disabili e lo facciamo qui con Maria Cristina Pesci – medico, psicoterapeuta e sessuologa – che da molti anni si occupa delle problematiche legate al tema Sessualità e disabilità, prestando particolare attenzione anche alla specificità femminile.
A Cristina abbiamo rivolto alcune domande. Lei, gentile e professionale, ci ha risposto. La ringraziamo di cuore per la disponibilità.
«Non esiste una sessualità speciale delle persone disabili». Puoi spiegare più in dettaglio il significato di questa tua affermazione?
«Semplicemente vorrei portare l’attenzione sulla possibile tentazione di pensare alla sessualità delle persone disabili come a una realtà speciale e diversa a cui accedere con codici specifici per comprenderla. Spesso questo si verifica e possiamo interpretarlo come il segno evidente, per quanto comprensibile, della fatica di rimanere in relazione, di mettersi in gioco, di mettere in discussione le proprie idee ed esperienze sui temi della sessualità e affettività, da parte di chi si trova a condividere con una persona disabile, la quotidianità e la “normale” vita di tutti i giorni.
Se la penso come speciale, posso immaginare che la sessualità di chi ha una disabilità non riguarda tutti noi, non ci tocca direttamente, non ci include, soprattutto non ha significati analoghi, analoghe possibili richieste, stessi eventuali aspetti di piacere, di conoscenza, di evoluzione anche con la inevitabile quota di dolore e di senso del limite con cui ognuno di noi si deve confrontare.
Se invece affrontiamo questi aspetti riconoscendo una matrice comune di umanità e dignità, paradossalmente ci accorgiamo di avere molti elementi non solo di similitudine da cui partire per ragionare in concreto su questo tema, ma ci rendiamo conto di quanto credito di conoscenze già possono essere a nostra disposizione per tentare di non negare un diritto fondamentale.
Pensare a una sessualità diversa e speciale per le persone disabili è in fondo un modo illusorio e inefficace per difenderci dalle infinite domande, paure e complicazioni che si affacciano alla nostra mente quando l’argomento in gioco è appunto la sessualità e le tante possibili implicazioni che questo tema porta con sé. Questo avviene in senso generale parlando di sessualità, non solo rispetto alla disabilità, ma diventa ancora più forte se si entra in contatto anche con la presenza di deficit, patologie, difficoltà di vario ordine e gravità.
L’esistenza di una dimensione diversa dell’affettività e della sessualità legata alla disabilità rimanda a un’ipotesi di conoscenze specifiche e non accessibili a tutti gli attori in gioco e in fondo può giustificare il forte senso di timore e estraneità che quasi sempre si manifesta in prima battuta su questo tema.
Pur nell’unicità di ogni singola esperienza, la sessualità ha una matrice di aspetti comuni che riguardano tutti noi, alcuni visibili altri più nascosti, ma che nascono da un sentire che appartiene a ciascuno. Se siamo dunque aiutati a dare spazio a tali comuni significati, questi ci permettono di comprendere davvero di cosa ci stiamo occupando e da quali elementi avviare una reale lettura dei bisogni in gioco e delle difficoltà che quella specifica situazione può portare con sé.
Infine, cosa particolarmente importante, ci permette di riconoscere e separare, e dunque non confondere, la propria esperienza da quella della persona disabile che abbiamo di fronte, le proprie convinzioni da quelle che riguardano la realtà dell’altro, con il risultato di non travasare incondizionatamente la propria realtà nel mondo spesso più vulnerabile dell’altro. Sembra una contraddizione, ma se riconosciamo maggiormente le peculiarità e le differenze di ciascuno, ciò che ci rende simili e ciò che ci distingue, si promuove conoscenza e vicinanza ed è più difficile costruire segregazioni, siano esse attuate concretamente o in termini simbolici.
Il senso è quello di aiutarci tutti ad includere la sessualità e le sue espressioni all’interno di ogni persona, disabile o non disabile. E ancora, di includere questa realtà legata al mondo degli affetti, del piacere, della conoscenza di sé e degli altri, all’interno di una condizione di comune vicinanza che non esclude il deficit, ma non per questo trasfigura in qualcosa di completamente altro da sé la persona con disabilità».
Dagli anni Settanta a oggi come è cambiato – se è cambiato – l’atteggiamento della società rispetto alla sessualità delle persone disabili? Ci sono atteggiamenti differenziati in base al sesso della persona disabile?
«Credo che l’esperienza dell’integrazione con la chiusura delle scuole speciali e delle istituzioni totali per chi aveva una disabilità abbia imposto cambiamenti impareggiabili. Sono cambiate quindi molte cose, anche se ci troviamo ancora di fronte a grandi differenze legate alle caratteristiche del territorio considerato, dei servizi offerti, e delle influenze culturali e sociali che riguardano le diverse realtà.
Ci sono esperienze molto avanzate e insieme situazioni che sembrano ancora all’anno zero. Gli anni Settanta hanno visto la nascita della cultura dell’integrazione con leggi ancora oggi all’avanguardia nel mondo per il loro valore innovativo, di cui non dovremmo dubitare in termini di contenuti, ma andare orgogliosi rispetto alle realtà di tanti altri Paesi.
Si dovrebbe piuttosto riflettere rispetto alla svalutazione diretta e indiretta che via via sta riducendo le risorse che permettono l’applicazione di un modello di cura, in senso ampio, dei bambini e bambine con disabilità. Si innesta un circolo vizioso che fa pensare a una sempre minore sostenibilità di quei principi e delle norme e che produce la denigrazione dell’impianto di questa conquista. Tutto questo può far sentire tutti noi sempre più impotenti e dubbiosi sulla validità dei concetti di integrazione e di reciprocità di vantaggi nella comune e condivisa esperienza di crescita tra persone con disabilità e le persone tutte.
Questa lunga esperienza di convivenza ha inevitabilmente comportato una nuova realtà e la necessità di dover fare i conti anche con la dimensione sessuale e affettiva di ciascuna persona e figura coinvolta. Naturalmente esistono atteggiamenti differenti rispetto all’appartenenza al genere femminile o maschile e tale differenza dovrebbe essere in teoria proprio una garanzia di vero riconoscimento delle specificità che riguardano le donne e gli uomini. Questo, però, avviene prevalentemente nel senso di una cancellazione dell’identità femminile delle bambine e delle donne disabili. In realtà è un modo per non guardare in faccia i tanti abusi, le negazioni di diritti e dignità, i bisogni specifici che le donne disabili ancora aspettano di vedersi riconosciuti e che con fatica cominciano ad affacciarsi in un panorama più attento, proprio a partire dalle riflessioni e dagli stimoli delle donne, disabili e non.
Paradossalmente, in presenza di disabilità, le categorie con cui si cerca di comprendere e stimare una determinata condizione (sociale, culturale, ecc.) non prevedono quasi mai una valutazione che distingue i dati, considerando anche le differenze di genere. Proprio il tema dell’affettività e della sessualità ci richiama alla “strana” dimenticanza così a lungo praticata e ci mostra inequivocabilmente come le persone disabili siano state considerate a lungo asessuate o meglio come si sia a lungo operato per tenere sotto silenzio questi aspetti».
La riflessione sulla sessualità chiama in causa una riflessione sul corpo. Costruire un buon rapporto con il proprio corpo può risultare un’impresa impegnativa e faticosa per chiunque, ma la presenza di una disabilità è solitamente motivo di maggiore complicanza. Cosa favorisce e cosa inibisce l’elaborazione positiva di questi aspetti da parte delle persone con disabilità? Il persistere di uno stereotipo che vuole la donna “perfetta, attraente, seducente” può costituire motivo di una fatica addizionale nei percorsi individuali di autoaccettazione delle donne (più o meno disabili)?
«Il tema del corpo, dei modelli e degli stereotipi porta elementi molto ricchi di spunti. Penso che il modo più consono alla mia formazione per affrontare questi punti sia quello di ricordare quanto siamo continuamente chiamati a confrontarci con elementi della realtà contraddittori, dentro e fuori di noi.
Per fare un esempio concreto legato alla domanda, proviamo ad analizzare con coordinate diverse il desiderio di essere “perfetta, attraente e seducente”. Ciascuna e ciascuno di noi ha modelli di riferimento rispetto al corpo, all’estetica, alla seduzione. Questi modelli sono fatti di innumerevoli elementi: reali, ideali, più o meno consapevoli, vicini o lontani al nostro comportamento e al modo di essere nel rapporto con gli altri. In quest’ottica desiderare di essere attraenti e seducenti, non ha di per sé né una valenza positiva, né negativa.
Rispetto al desiderio di perfezione potremmo dire che questo desiderio porta con sé un conflitto che riguarda ciascuno di noi, in ogni momento della nostra vita. Ognuno di noi si trova ad affrontare una realtà personale che continuamente deve fare i conti con il limite in senso lato. Così il rapporto con il corpo si inscrive pienamente in questa evoluzione continua e contrastata. La disabilità e le differenze esplicitano in modo inevitabile il dolore di queste elaborazioni e l’incertezza delle conseguenze: un aiuto nella possibilità di vivere al meglio questo dialogo sono convinta possa venire dal confronto con le altre persone e le altre donne e nel moltiplicare tutte le possibili occasioni di relazione, di legami possibili, di condivisione del quotidiano.
Pensando alla realtà femminile, credo che uno dei problemi più rilevanti, ma di cui si ha meno coscienza, riguardi la difficile “accoglienza” della disabilità femminile nel contesto culturale e sociale delle riflessioni sulle differenze di genere. Tra le tante specificità, quelle legate alla realtà della disabilità sono tralasciate e passate sotto silenzio. La riflessione delle donne ha invece bisogno di questa apertura all’esperienza che la disabilità rappresenta e le donne disabili hanno bisogno di essere ricordate e incluse in questo reciproco rispecchiamento. Credo che l’invisibilità delle donne disabili abbia un grande nemico proprio nella dimenticanza che il mondo culturale femminile opera verso l’esistenza delle donne disabili, senza esserne nemmeno consapevole. E sono per prime le donne che non sanno offrirsi a questo dialogo, forse praticando la negazione di un’appartenenza comune che, con la presenza della disabilità, non può eludere i temi della dipendenza, della vulnerabilità, della violenza, dei bisogni irrinunciabili, della cura da offrire, ma anche da ricevere come diritto irrinunciabile».
Se da un punto di vista strutturale e ormonale i due sessi hanno caratteristiche e predisposizioni ben differenziate, da un punto di vista psicologico è possibile individuare nella sessualità una specificità femminile? E in tal caso quali sarebbero i tratti distintivi?
«Credo che le risposte si trovino nel dibattito che questi temi impegnano per tutte noi persone. La ricerca affronta questi interrogativi e la difficoltà più grande è quella di uscire dagli stereotipi e dalle idee preconcette.
I movimenti femminili da anni stanno affrontando il tema e stanno ricercando una specificità che possa costruire anche un linguaggio originale. La ricerca di qualcosa di specifico che riguarda la riflessione sulla disabilità e l’identità di genere credo sia ai primi passi di un interessante approfondimento di cui, non ho dubbi, potrebbe avvantaggiarsi tutto il possibile dialogo della cultura femminile».
Per ogni donna il rapporto con la propria madre ha una particolare rilevanza nella costruzione della propria identità di genere. Posti i limiti a cui sono soggette tutte le generalizzazioni, ritieni che la presenza di una disabilità (nella madre o nella figlia) incida significativamente su queste dinamiche? Se sì, in che modo?
«Non credo sia possibile negare che un evento così pregnante come la presenza di una disabilità non influisca su un rapporto tanto significativo come quello tra madre e figlia. Il riconoscimento reciproco, l’accoglienza e insieme il dolore della diversità, il contatto corporeo che permette di crescere insieme, la vicinanza e il processo di separazione che il tempo che scorre ci impone di accettare e promuovere, credo siano tutti aspetti che sono toccati dalla presenza della disabilità. Il modo in cui questo avviene penso sia specifico e unico per ogni storia, ma il confronto e lo scambio delle esperienze con chi ha vissuto situazioni simili, può essere di grande aiuto e stimolo nella costruzione dell’identità di genere.
Potremmo dire che se la madre riesce in modo sufficientemente buono a offrirsi come specchio amorevole nei confronti della propria bambina, per quanto complesso, il percorso di costruzione della propria persona da parte della figlia con disabilità e viceversa, potrà contare su una capacità di comprendere se stessa e di sentire integrate dentro di sé anche quelle parti che hanno a che fare con il deficit e la diversità, senza che queste impediscano di sentirsi fiera del proprio modo di essere».
Quali interventi, servizi o iniziative pensi possano essere più utili a promuovere il riconoscimento del diritto all’espressione sessuale della donna con disabilità?
«Credo che tutte le condizioni di vita pensate per il processo di integrazione abbiano bisogno di supporto e operatori competenti per essere riconosciute e sostenute: i servizi per la salute e la prevenzione, con la specificità di quelli dedicati alle donne, la scuola, gli aiuti per la vita indipendente, la mediazione di figure competenti durante la gravidanza e la cura dei figli per svolgere con tranquillità i propri compiti di madre nonostante le disabilità. Ma prima di tutto il riconoscimento del diritto di persona con la propria appartenenza di genere, con il legame autentico e profondo con il mondo femminile, cioè con il senso di comune appartenenza che può unire le donne. Forse sono le donne le prime chiamate a non sottrarsi al confronto, al riconoscimento di cosa ci vede simili e di cosa la disabilità provoca in tutte noi di contraddittorio e nuovo, disabili o non disabili».
*Componente del Coordinamento del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare). Testo già apparso all’interno del sito dedicato a tale Gruppo e qui riprodotto per gentile concessione.
È certamente una delle esperienze oggi più vive e interessanti – nel campo della documentazione riguardante la disabilità – quella avviata nel 1998 dal Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), costituitosi allora, in modo informale, in occasione delle Manifestazioni Nazionali di Palermo dell’Associazione.
I suoi obiettivi originari erano da una parte quello di raggiungere le pari opportunità per le donne con disabilità, attraverso una maggiore consapevolezza di sé e dei propri diritti, dall’altra cogliere la “diversità nella diversità”, riconoscendo la specificità della situazione delle donne disabili.
Poi, nel corso degli anni, il Gruppo ha cambiato in parte il proprio ambito d’interesse, oltre a non essere più composto da sole donne e a non occuparsi esclusivamente di questioni femminili. La stessa disabilità è diventata uno dei tanti elementi in un percorso di integrazione e di apertura su più fronti.
Quest’anno, per festeggiare il suo decimo “compleanno”, il Coordinamento del Gruppo Donne (composto da Francesca Arcadu, Annalisa Benedetti, Oriana Fioccone, Simona Lancioni, Anna Petrone, Gaia Valmarin e Marina Voudouri) ha deciso di investire di più in informazione e in documentazione, recuperando i suoi obiettivi originari, senza rinunciare all’apertura quale tratto distintivo. E così – come in un laboratorio – è iniziato un lavoro finalizzato a organizzare e rendere fruibili, attraverso il proprio spazio internet, le informazioni che circolano all’interno del Coordinamento stesso. Il risultato di questi sforzi è raccolto nella sezione Altri documenti d’interesse, comprendente interessanti dossier su temi quali la gravidanza, l’invecchiamento, le donne e la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, la discriminazione in ambito sanitario e altri ancora.
Particolarmente significativa anche la sezione Donne e disabilità nel cinema, ove, come spiega Annalisa Benedetti, «sono elencati quei film che, secondo noi, attraverso storie vere piuttosto che puramente inventate, hanno messo “in movimento” pensiero e anima di donne speciali, suddivisi nelle seguenti aree tematiche: disabilità fisica, disabilità sensoriale, disagio psichico».
Da ricordare, infine, un altro dei principali canali attraverso i quali si è incentrata in questi anni l’attività del Gruppo Donne UILDM, vale a dire la promozione di eventi seminariali i quali hanno dato vita ad altrettante pubblicazioni, tenute insieme nella collana denominata Donne e disabilità.
Tutti i testi prodotti dal Gruppo Donne UILDM (compresi quelli appartenenti alla collana Donne e disabilità) sono disponibili all’interno del sito www.uildm.org ed esattamente nella sezione che si raggiunge cliccando qui.