Iniziarono con Raffaella, la moglie conosciuta in gioventù a Brescia, il palo più solido della sua porta, la barriera da piazzare tra sé e un mondo che non lo capiva. La incontravano al supermercato, la indicavano senza pudori, poi qualcuno, più vigliacco di altri, si faceva coraggio. «Sei la moglie del portiere Malgioglio, vero? Brutta zoccola, spiegalo a tuo marito che è una testa di cazzo». Continuarono con la figlia, a scuola, con la tipica cattiveria di cui i bambini, adeguatamente guidati, sanno essere maestri. «Sei una mongoloide, come tuo padre», finirono con lui, in un giorno di sole del 1986, allo Stadio Olimpico. Nove marzo, Lazio-Vicenza, serie B. Lo striscione in curva non lasciava spazio alle interpretazioni. «Torna dai tuoi mostri».
Astutillo Malgioglio quel pomeriggio non riuscì a concentrarsi. «Sporco romanista / sei il primo della lista». I cori gli rimproveravano l’esperienza con la casacca della rivale di sempre e cadevano puntuali, ogni due minuti. Lui giocò male. Prese un paio di strani gol da un mestierante veneto, Rondon, poi, oppresso dal clima, non riuscì a fare primavera.
All’ennesimo insulto, a fine partita, si tolse la maglia, ci sputò sopra e la gettò verso la curva. In quello stesso momento decise di chiudere col calcio. Lo sport grazie al quale da giovane, prima della laurea in medicina, era riuscito ad arrivare in Nazionale. Il pianeta che mai si era sforzato di capire come mai, al posto di autosaloni e discoteche, spendesse ferie e guadagni per aiutare i bambini distrofici. Lo guardavano di traverso, ironizzavano, lavoravano sull’esclusione.
«Ero isolato ma negli anni ho ricevuto soprattutto indifferenza». Malgioglio conosceva quella sensazione. Lottava ogni mattina per gente meno fortunata di lui fin dal 1977. Ad un tratto non ce la fece più e squarciata la timidezza, lasciò esondare il disprezzo. A Roma, dopo la tranquillità della Laurentina, gli avevano consigliato di abitare nei pressi dello stadio.
Nei fatti viveva tappato in casa. Quando metteva piede all’aria aperta, le conseguenze del disamore cadevano come mattoni. A Tor di Quinto, il vecchio complesso in cui Tommaso Maestrelli aveva edificato lo scudetto della Lazio nel ’74, avevano provveduto a distruggergli la macchina con mazze e bastoni. Mani anonime. I tifosi lo odiarono senza mediazioni. La voce della sua passione per i meno fortunati si sparse rapida e la logica del branco fu la conseguenza naturale di una filosofia di grana grossa.
Lo accusavano di scarso impegno. «Se stai sempre con gli handicappati, quanno ce pensi ar pallone?». Niente di nuovo per Tillo. Da giovane, a Brescia, ad ostacolarlo era stato il tecnico delle valli bergamasche Marino Perani, eroe autarchico del Bologna 1964. Sepolti i tempi in cui “faceva tremare il mondo”, Perani si accontentava di orizzonti minori. E Malgioglio zitto, in tuta o pantaloncini. Col baffo silente. Educato. Si buttava a destra e a sinistra, colorava le ginocchia di rosso e terminata la fatica rimontava in macchina. Parcheggiava, superava la scritta sulla porta, e spalancava un universo differente.
“Era”, acronimo delle iniziali dei suoi cari, rappresentava l’isola trovata, l’oasi in cui giocarsi il cielo a dadi. La scommessa, davvero eccezionale, essere un uomo normale. Solidale, ricettivo, l’ego in un angolo perché qualcosa che conti di più, a cercarlo, esiste davvero. Bastava guardarli. Le gambe ferme, i pensieri veloci. Non servivano parole. Volevano compagnia. Comprensione. «Avevo incontrato il dolore da ragazzo. Non riuscivo a dimenticare, bussava forte. Quando scoprii la sofferenza, decisi di darmi davvero». La capitale rimase sorda. Prima esperienza nella Roma post scudetto, un anno filtrato dietro la luce buia della panchina a osservare il titolare, Tancredi. La giovinezza che sfiorisce dietro le promesse, i «vedremo, non ti agitare», le scelte unidirezionali del coach svedese Eriksson. Poi il passaggio alla Lazio. Un viatico pessimo. Ad ogni allenamento la stessa replica. Bottigliette, sputi, pomodori.
«Ero dispiaciuto per loro. Che i tifosi non provassero a calarsi in una dimensione diversa mi sembrava impossibile. Intorno a me, i compagni si nascondevano. Sparivano, sembrava fossi un appestato. Nessuno che si ribellasse, prendesse posizione, dicesse basta. La provenienza romanista, comunque, era solo una scusa». Quel giorno col Vicenza, l’accettazione supina si trasformò in rabbia. «Mi tolsi la maglia con la consapevolezza di dire basta col calcio». La società annusò il vento e poi cavalcò l’indignazione pelosa. «I dirigenti si scatenarono e recitarono da ultrà. Proposero la mia radiazione. Fu come essere aggredito un’altra volta. Mi accusavano con frasi prive di senso: “La bandiera non si tocca”, arringavano. “Malgioglio l’ha sporcata, deve andare via”». Astutillo non attese il processo sommario, si tolse di mezzo da solo. Rescisse il contratto e si ritirò. Un giorno squillò il telefono. Dall’altra parte del filo, una voce amica, la prima, da tanto tempo. «Ho letto che abbandoni, mi dispiace. È un peccato. Ripensaci. Se lo desideri, per uno come te, all’Inter c’è sempre spazio». Giovanni Trapattoni sapeva intenerirsi. Tillo prese il treno e fece bene. Gli misero sotto il naso un contratto in bianco. Firmò senza fiatare. Cinque stagioni bellissime. Una rivincita preludio a un commiato definitivo. Divise il lavoro con Trapattoni, coinvolse Klinsmann nelle iniziative benefiche trascinandolo a pranzi benefici almeno due volte alla settimana, vinse lo scudetto dell’89, a distanza di un decennio dall’ultima impresa disegnata da Bersellini e poi, sul proscenio più temuto, il destino si prese la briga di disegnare un finale inatteso.
Quattro marzo 1990. Il programma del campionato prevede Lazio-Inter. Zenga sta male, tocca al numero 12. Lo stato delle cose non era cambiato. Le vite degli altri, neanche. «Provai a spiegare al presidente Pellegrini che la natura delle persone non muta. Ma lui niente. “Astutillo, qui dobbiamo dare un segnale chiaro. Porterai un mazzo di fiori sotto la curva, farete pace, vedrai”». Eccolo allora, il campo. Un passo, due verso la sua ex curva. I fischi, allo Stadio Flaminio, una polifonia assordante. Ancora qualche metro, forse passa. Aumentarono. Poi dal cielo piovve di tutto.
«Passai momenti terribili, avanzavo con i fiori. Solo. Al centro della scena. Prima le contumelie, poi gli oggetti». Un tiro a segno, col piccione ferito ad avanzare verso la trappola. «Radioline, pile, bottiglie e io in piedi, senza mai cadere. L’arbitro non sospese la gara, riuscii a rimanere in piedi. Uscii ferito. Il sangue che scendeva sul volto. Negli spogliatoi trovai freddezza, la stessa di pochi anni prima». Superata la prova più dura, Astutillo tornò nei ranghi. All’Inter non tolleravano semplicemente la sua passione. La implementavano, la supportavano. Tempi felici. Alessandro Bianchi, suo compagno di squadra in nerazzurro, ricorda: «Un uomo semplice che mi aiutò ad inserirmi. Venivo da Cesena, fu come un padre per me. Agiva senza pensare al tornaconto, l’amore per gli altri gli veniva da dentro». Lui, a suo modo, conferma il quadro. «Come atleta non ho mai derogato ai miei impegni. Arrivavo per primo, lasciavo il centro sportivo per ultimo. Mai saltata una seduta. C’era però chi riteneva di poter controllare la vita privata al di là della rete. Un calciatore, per quelli del settore, doveva solo correre. “Cosa cerchi Astutillo? Non ti basta quel che hai?”».
Non gli bastava, ma quando le luci tramontarono, con la gloria finirono anche i soldi. «Ho aspettato un cenno, ma il telefono, all’improvviso, smise di squillare. Il pallone è questo, inutile girarci attorno». “Era 77”, la sua associazione, oggi non esiste più. «Offrivo assistenza gratuita e il denaro per un’idea del genere, l’unica possibile, non c’erano più. Ho regalato i macchinari. Finché ho potuto, raggiungevo i pazienti a domicilio». Poi la salute si è messa di traverso e Tillo ha rinunciato allo scopo di tutta un’esistenza. Del proprio male, preferisce non parlare. «Sono stato comunque un uomo fortunato, ho ancora la mia famiglia e non chiedo di più». La sua terra di mezza, dove il gelo non può scendere, né i petali di alcun fiore cadere.
*Articolo pubblicato dal quotidiano «l’Unità» del 10 dicembre 2008 e qui ripreso per gentile concessione.
Oggi Astutillo Malgioglio è tornato a vivere, là dove, nel maggio di cinquant’anni fa, nacque. A Piacenza. Cresciuto nelle giovanili della Cremonese, passò al Bologna e si affermò nel Brescia dove fu promosso in serie A con la stessa squadra lombarda nel 1980. Nella sfortunata stagione successiva, il Brescia retrocesse. Allora Astutillo emigrò a Pistoia e nell’estate ’83 a Roma. Nella formazione di Eriksson Malgioglio trovò poco spazio, ma persino peggio gli andò con la Lazio, l’anno dopo. Aveva deciso di ritirarsi, ma Trapattoni lo richiamò all’Inter nel 1986. Cinque anni magnifici e uno scudetto da comprimario. Apprezzatissimo.
Nel Natale del 1977, l’incontro con i bambini distrofici. Malgioglio aveva 18 anni e lo invitarono. «Vieni con noi, vogliamo mostrarti qualcosa». Il cattolicissimo Astutillo seguì gli amici e passò una vigilia speciale con i bambini distrofici. Da quel giorno, spese denaro, ferie e credibilità per aiutare i meno fortunati. Sforzi economici e personali che gli valsero la progressiva esclusione da un mondo, quello del calcio, che mai tollerava chi derogava dalla linea prestabilita. L’indifferenza lo ammantò a lungo. Fino alla fine.