Una visione edulcorata della malattia mentale

È l'opinione dell'ex presidente della Coop Noncello di Pordenone rispetto al recente film di Giulio Manfredonia "Si può fare", ispirato appunto alle vicende di tale struttura. Ed effettivamente quando il cinema, la fiction e la TV affrontano la disabilità o il disagio sociale, spesso edulcorano le storie, rendendole accessibili a quelle che autori, registi e produttori ritengono siano le necessità del pubblico. Si rischia così di continuare a perpetuare una serie di stereotipi dannosi alla diffusione di una diversa percezione della disabilità

Un'immagine del film «Si può fare» di Giulio Manfredonia«Ho visto Si può fare – ha scritto nei giorni scorsi Sebastiano Commis al giornale «la Repubblica» – il film di Giulio Manfredonia ispirato a una storia vera accaduta alla Coop Noncello di Pordenone. Essendo stato presidente di Coopservice Noncello dalla fondazione, nel 1981, fino al 1999, permettetemi di dire che il film è godibile e i matti interpretati credibili, ma ha il torto di dare un’immagine edulcorata della malattia mentale, di proporre il modello della cooperativa di soli “matti”, che era fallito fin dalle prime esperienze goriziane».
«Il sindacalista in questione – continua Commis – interpretato nel film da Claudio Bisio, è arrivato alla Coop Noncello nel luglio 1990. Quell’anno la cooperativa aveva circa 350 soci, un fatturato di 7.428 milioni e un utile di 701 milioni, ma non si faceva niente di “creativo”, come cavalli di cartapesta, ceramiche o gite in barca, bensì banali pulizie per enti pubblici, la cura del verde e assistenza. Cosa che permetteva di far lavorare molte persone, ridurre la spesa assistenziale e dare sollievo alle famiglie dei malati. La Coop era un mix di persone assistite e di soci “normali”, tutti alla stessa paga oraria. L’integrazione iniziava già dentro la cooperativa. Questo per la precisione storica».

Una lettera, questa, cui servono pochi commenti. Il cinema, la fiction, la TV hanno bisogno di storie – e già da solo questo potrebbe essere un limite, ma è un dato assodato – per raccontare la disabilità o il disagio sociale. Quando le trovano le edulcorano, rendendole accessibili a quelle che autori, registi e produttori credono siano le necessità del pubblico: e così di volta in volta ci troviamo di fronte a storie strappalacrime, romantiche, di cronaca, storie di persone con “super-risorse” che li spingono a rompere i limiti dello spesso supposto disagio. Storie irreali nel loro preteso iperrealismo, come in un reality show globale che investe tutto il sistema della comunicazione e non così innocenti nel loro rilanciare pur benevolmente stereotipi dannosi per la diffusione di una diversa percezione della disabilità. Quando cambierà questo stato di cose? (Giuliano Giovinazzo)

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