Sono un operatore che lavora da anni nel campo della disabilità e in particolare nell’ambito dei servizi universitari di supporto agli studenti universitari con disabilità.
Le scrivo – onorevole Gelmini – sollecitato dalla lettura del Decreto Ministeriale da lei firmato il 28 agosto 2008 (protocollo n. 159/08) – Criteri ripartizione stanziamento per interventi studenti diversamenti abili anno 2008 – in cui campeggia appunto l’espressione “studenti diversamente abili”, sulla quale vorrei proporre alcune brevi considerazioni.
Mi permetta di partire da una frase illuminante dello scrittore Giuseppe Pontiggia, apposta come dedica al suo bel libro Nati due volte: «A tutte le persone disabili che lottano, non per diventare uguali agli altri, ma se stessi».
Questa dedica ci interpella tutti, nessuno escluso. In nessun settore della vita, infatti, le parole sono chiacchiere, tanto meno nell’ambito del sistema formativo formale (quello di Sua competenza come Ministro): nella correzione dei temi, ad esempio, contano perfino gli accenti e gli apostrofi, si immagini quindi il peso specifico delle parole!
La mia non vuole essere, per altro, una mera disputa lessicografica o semantica; nell’uso di certi termini, infatti, sono in ballo questioni assai più profonde, che concernono il rispetto vero delle persone, delle loro storie di vita e della loro condizione esistenziale.
L’espressione “studenti diversamente abili” è sempre più diffusa nel mondo dell’informazione e della politica, ma moltissimi fra i più competenti, preparati e appassionati operatori italiani nell’area delle disabilità hanno eccepito vigorosamente su di essa.
Le riporto alcuni esempi. La teologa Adriana Zarri scrive che questa «ridicola e ipocrita definizione rappresenta il colmo dell’imbarbarimento e, in fondo, dimostra una mancata accettazione di uno stato di difficoltà»; Andrea Pancaldi, tecnico che collabora con il Comune di Bologna, parla di termine «carico di ambiguità»; il giornalista Franco Bomprezzi [nostro direttore responsabile, N.d.R.] denuncia una «deriva linguistica che, nell’enfatizzare le capacità di alcuni, ignora le persone con maggiori difficoltà».
Carlo Giacobini, infine [nostro direttore editoriale, N.d.R.], descrive il “neologismo” con acuta ironia come «un ansiolitico linguistico, utile al massimo a mettere in pace la coscienza di coloro che non si sono mai fatti carico sino in fondo di questi problemi».
Personalmente ritengo che si tratti di un tentativo maldestro di “sdoganare” le disabilità, rimuovendo (o se si preferisce camuffando) le difficoltà reali che assillano giorno per giorno gli studenti universitari con disabilità.
Invece di lottare per affermare nella prassi quotidiana il diritto all’uguaglianza di opportunità, si inseguono goffamente modelli efficientisti ed estetici.
Qualcuno potrebbe obiettare che l’espressione mira a valorizzare le abilità residue (quando ci sono), il che è sicuramente doveroso, ma ha come indispensabile presupposto il riconoscimento leale e oggettivo delle limitazioni delle attività, non la loro rimozione attraverso operazioni di “cosmesi comunicativa”.
In realtà, l’inserimento e l’inclusione sono possibili, da una parte mediante provvedimenti amministrativi che favoriscano i progetti di vita indipendente di ciascuno (e quindi mettendo in campo investimenti); dall’altra, attraverso processi culturali di accettazione lunghi e complessi, che non solo non passano attraverso la proposta di nuove e ambigue definizioni, ma possono addirittura essere da esse ostacolati.
Gli studenti universitari con disabilità hanno bisogno di servizi e non di questi biglietti da visita ingenui, e anche fuorvianti.
Vale infine la pena ricordare anche che il termine “diversamente abile” non ha alcun rigore scientifico, né alcuna valenza sul piano legislativo ed è intraducibile in altre lingue.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che il 22 maggio 2001 ha approvato la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF), suggerisce di usare il termine “persone disabili” o “persone con disabilità”.
Mi auguro, Signor Ministro, che non voglia liquidare questa mia lettera come un semplice esercizio di pedanteria e puntigliosità semantica, ma intenderla come un piccolo contributo sulla strada da percorrere per la piena promozione dei diritti di cittadinanza delle persone con disabilità e per la creazione delle condizioni perché possano essere se stesse e non quello che noi vogliamo che siano. E allora mi creda, Signor Ministro, tutti noi saremo più autenticamente noi stessi.
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