Quando si parla di guerre, gravi disastri naturali o povertà estrema, raramente si pensa alle persone con disabilità e alla situazione di maggior rischio che essi corrono rispetto agli altri cittadini.
È giunto nei giorni scorsi alla nostra redazione l’accorato appello di una mamma** che ha a cuore la sorte dei bambini nati nei territori palestinesi che, soprattutto nelle tragiche giornate del gennaio scorso, hanno subito gravi violazioni dei diritti umani a causa del conflitto.
La mancanza di corrente elettrica in quei territori significa, tra le altre cose, l’impossibilità – oltre che di soccorrere adeguatamente i feriti – di prestare le cure primarie a bambini che necessitano di incubatrici e respiratori per evitare l’aggravamento o l’insorgere di complicazioni che possono portare a una disabilità grave.
Si pensi, poi, alla disabilità permanente causata, ad esempio, dalle mine antiuomo, da pratiche di tortura fisica e psicologica, dalle critiche condizioni igieniche, dalla scarsità di acqua e cibo, dalla povertà che segue ad un conflitto.
Lo stesso vale in situazioni di disastri naturali come ad esempio lo tsunami avvenuto il 26 dicembre 2004 nell’Oceano Indiano. Il salvataggio delle persone con disabilità non è certamente stato tra le priorità di organizzazioni umanitarie o di eserciti governativi e ciò è dovuto, in parte, all’incapacità di prevedere e affrontare la questione.
Purtroppo, però, tali situazioni sono spessissimo causa di disabilità e inoltre le persone con disabilità sono, insieme ai bambini, destinate ad essere sempre tra le prime vittime.
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, all’articolo 11 (Situazioni di rischio ed emergenze umanitarie) ci offre uno strumento normativo per il riconoscimento alla protezione secondo la legislazione in materia di sicurezza: «Gli Stati Parti adottano, in conformità agli obblighi derivanti dal diritto internazionale, compreso il diritto internazionale umanitario e le norme internazionali sui diritti umani, tutte le misure necessarie per garantire la protezione e la sicurezza delle persone con disabilità in situazioni di rischio, incluse le situazioni di conflitto armato, le emergenze umanitarie e le catastrofi naturali».
In materia poi di protezione civile, ci viene in soccorso l’articolo 19 della Risoluzione del Parlamento Europeo del 4 settembre 2007 sulle catastrofi naturali, dove si «sottolinea la necessità di attribuire un’attenzione particolare, in casi di catastrofi naturali, ai bisogni specifici dei disabili in tutte le azioni intraprese utilizzando i meccanismi della protezione civile».
Questo significa che nel quadro di un conflitto armato, gli aiuti umanitari devono, oltre che essere garantiti, rivolgersi anche alle persone con disabilità a seconda delle loro esigenze e capacità e che l’esercito occupante dovrebbe essere ritenuto responsabile della cura di tali persone.
Significa anche che in situazioni di catastrofi naturali le operazioni di salvataggio e gli strumenti di prevenzione (ad esempio gli allarmi e le vie di fuga) devono essere progettati per tutti, anche per le persone con disabilità, basandosi sui principi del cosiddetto Universal Design (“progettazione universale”), secondo cui prodotti, ambienti e programmi devono poter essere utilizzati da tutti senza apportare alcuna modifica, adattamento o esecuzione di un disegno ad hoc.
E ancora, significa che, in situazioni di emergenza umanitaria (epidemie, scarsità di cibo e acqua, costruzione di ospedali da campo ecc.), gli aiuti devono essere accessibili proprio a tutti, indipendentemente dalla condizione di salute o dalla lontananza dai centri abitati.
Significa, infine, che in situazioni di povertà estrema (condizione di emergenza umanitaria prorogata nel tempo), gli aiuti strutturali, anche economici, devono includere i bisogni di tutti perché la disabilità causa povertà e certamente la povertà causa disabilità.
Si tratta, in buona sostanza, di pari opportunità. Opportunità di sopravvivenza.
Dell’argomento si parla progressivamente sempre di più, tanto che nel 2007 un gruppo costituito da rappresentanti della Protezione Civile, delle istituzioni italiane ed estere, di organizzazioni di persone con disabilità e non governative, ha licenziato quella che è stata chiamata la Carta di Verona, un importante documento che sposta l’attenzione sul rispetto dei diritti umani e sui principi di non discriminazione e pari opportunità [se ne legga approfonditamente, in questo stesso sito, al testo intitolato La prospettiva dell’emergenza, disponibile cliccando qui, N.d.R.].
Tale documento tiene conto di tutte le operazioni, dalla progettazione all’implementazione, passando per il pieno e attivo coinvolgimento delle persone con disabilità nelle attività di pianificazione e ricerca di soluzione per la riduzione del rischio e l’intervento in caso di emergenza. Inoltre esso include, cosa molto importante, la formazione degli operatori coinvolti in situazione di gestione del rischio e salvataggio.
*Testo pubblicato nel sito nazionale dell’ANFFAS (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale), con il titolo Disabilità in situazioni di rischio e qui ripreso per gentile concessione, con riadattamenti minimi.
**Guiomar Parada, traduttrice di saggistica e giornalismo. Collabora tra l’altro dal 1989 anche con il quotidiano «la Repubblica».
Anche se lo stop dell’attacco israeliano tenesse, anche se Hamas smettesse di lanciare i razzi, anche se Israele ponesse fine all’occupazione di Gaza e si arrivasse in futuro alla tanto agognata convivenza pacifica, vi è una categoria di persone la cui vita è stata segnata per sempre dall’attacco israeliano che è seguito al Natale: non mi riferisco ai bambini le cui ferite guariranno pur restando traumatizzati, ma ai bambini nati in questi giorni o feriti in maniera tale da aver subito danni irreversibili al sistema nervoso.
Chi scrive ha una figlia che per causa dell’imperizia dei medici e della disattenzione dei pediatri oggi è una persona perfettamente cosciente che vive in un corpo che le risponde quanto una gabbia.
Un danno cerebrale alla nascita può causare anche l’opposto: un corpo perfettamente funzionante con un sistema cognitivo nullo… e tutti i toni del grigio in mezzo. Mia figlia è nata a Roma dove non mancava l’elettricità, mente a Gaza l’elettricità per le incubatrici e i respiratori dipende ed è dipesa da generatori di emergenza, funzionanti a manetta secondo la disponibilità di carburante o nelle tre ore forse di elettricità.
Chiunque abbia visto in un neonato in incubatrice capisce quanto bastino pochi minuti – e talvolta secondi – perché una persona passi dall’avere davanti a sé un’esistenza “normale” ad averne una tra le più difficili immaginabili.
Le cure per questi bambini sono efficaci se sono tempestive – e già non lo sono state – ma possono comunque fare una differenza se intraprese al più presto.
Lancio qui un accorato appello affinché il Governo israeliano, in quanto Paese occupante, si assuma il compito di aiutare direttamente e indirettamente – consentendo alle organizzazioni umanitarie di occuparsene subito – questi bambini già condannati a esistenze spaventose e a sostenere i loro genitori.
Allevare un figlio disabile è un lavoro enorme – anche quando si vive in un Paese avanzato come l’Italia o Israele – che diventa disumano e profondamente doloroso quando si vive in una zona del mondo arretrata, o priva di risorse e accerchiata da un muro, come Gaza.
Non voglio, come immagino nessuna persona degna di tal nome possa volere, rivedere le immagini di un disabile che sta su una carriola (Bosnia) o di bambini disabili legati ai letti e tra gli escrementi in istituti lager, testimoni del fatto che al mondo una sottospecie umana c’è ancora.
Guiomar Parada