I bambini con disabilità stranieri? Hanno gli stessi “bisogni speciali” degli altri ragazzini, ma con “l’aggravante” di conoscere, più o meno bene, una lingua diversa. E anche «la cultura differente e la fatica dei maestri, dei professori e degli insegnanti di sostegno di rapportarsi con la famiglia di origine, nonché la loro scarsa preparazione sui temi dell’approccio interculturale alla disabilità, sono variabili che rischiano non solo di non dare risposte concrete all’integrazione scolastica, ma anche di incidere sulla diagnosi funzionale dei bambini disabili figli di genitori immigrati, soprattutto quando si tratta di distinguere tra difficoltà e disturbi dell’apprendimento», spiega Alain Goussot, docente di Didattica e Pedagogia Speciale alla Facoltà di Psicologia di Cesena (Università di Bologna).
Sono questi i risultati di una ricerca realizzata dalla Facoltà di Psicologia cesenate, mentre un’altra del genere sta per partire a Bologna. A essere indagati sono stati i “bisogni speciali” di una decina di alunni con disabilità stranieri, sui diciassette certificati dall’ASL, che frequentano le scuole elementari e medie della città romagnola.
Tra i casi incontrati da Alain Goussot ce ne sono due, in particolare, che sono “esemplari” della situazione descritta. «Abbiamo incontrato il caso di un bambino sordo di 10 anni, originario del Marocco, che manifestava anche – a detta degli insegnanti delle elementari – qualche lieve ritardo nell’apprendimento. Alla fine è emerso, parlando con la famiglia, che il problema era un altro: conosceva il Linguaggio dei Segni solo in arabo».
Anche sul discorso diagnosi il problema è complesso. «Quando abbiamo detto a una madre, senegalese, che il figlio era autistico, la donna è andata in crisi: per lei, e per la sua cultura, era un “bambino speciale”, una sorta di “messaggero degli antenati”; per il Sistema Sanitario Italiano, invece, era un bambino malato».
Altro problema: «In molte tradizioni esiste l’idea della guarigione legata anche alla disabilità, senza considerare per nulla la dimensione legata alla socializzazione», spiega ancora Goussot.
Ma non tutte le storie di integrazione scolastica dei bambini con disabilità stranieri sono negative. Questa, ad esempio, è tratta dal numero 2 del 2008 di «HP-Accaparlante», la rivista del Centro Documentazione Handicap (CDH) di Bologna.
«Quando S. è arrivata in prima elementare aveva dei problemi motori e non sapeva né leggere né scrivere né disegnare. “Ora queste cose le sa fare”, dice il padre. Adesso S. ha 14 anni ed è una ragazzina di origine marocchina con sindrome di Down arrivata in Italia nel 2000 con la mamma e una sorellina appena nata. Il papà era già in Italia dal 1987. Il primo anno è rimasta a casa, poi però ha frequentato la scuola dell’infanzia, le elementari e presto andrà alle medie. “Anche in Marocco – dove sta cominciando ora il processo di integrazione – la mandavamo in una scuola: era privata, io pagavo pure, ma lei non migliorava”, racconta il padre, che ha un’ottima opinione sia degli insegnanti sia degli operatori dell’ASL». (Michela Trigari)
*Testo pubblicato da «Redattore Sociale», con il titolo Bimbi disabili stranieri e scuola: stessi i bisogni, ma pesa la diversa cultura familiare e qui ripreso per gentile concessione.