Nick (l’attore Robert Carlyle), operaio edile e appassionato calciatore, un giorno si imbatte in Karen (Juliet Aubrey), impiegata in un albergo. I due si innamorano e trascorrono giorni felici e scanzonati. Ma qualcosa di imprevisto nel corpo di Nick comincia a succedere: una malattia genetica si affaccia sulla soglia della sua vita.
In Go Now (1995), il regista inglese Michael Winterbottom (tra le altre sue opere segnaliamo Jude; Benvenuti a Sarajevo; I Want You; With or Without You; Wonderland; Cose di questo mondo; Codice 46; A Mighty Heart – Un cuore grande; Genova) mette in scena un testo di Paul H. Powell, scrittore inglese affetto da sclerosi multipla, in uno scenario sociale degno di Ken Loach, ma con un’energia narrativa inaspettata. Il film parte infatti come una commedia di ambientazione proletaria, ma nella seconda metà – con un tocco di classe memorabile, quale la caduta del martello – prende una svolta precisa senza cambiare pelle.
Il protagonista è giovane e non vuole la malattia. Il suo rifiuto assume dimensioni esistenziali: Nick non “vuole” più nemmeno se stesso né desidera essere “voluto”, tanto meno dalla sua giovane fidanzata Karen. Eppure il bisogno – che nelle immagini diventa viscerale bisogno d’amore – si contrappone al rifiuto di Nick, impegnato ad affrontare insidie di cui prima non si era mai dovuto preoccupare.
Winterbottom non vuole patetismi e nemmeno facili consolazioni. Il sesso, il corpo, le grida, i tradimenti, la condizione umana e la canzone Go Now dei Moody Blues – che dà il titolo al film – sono le sue carte e le cala una dopo l’altra, senza dimenticare che la vita, il ballo continuano. E nel finale del film, Nick sta ancora ballando.
*Testo apparso nel n. 163 di «DM», giornale nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) e qui ripreso per gentile concessione.
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