L’apparente «inutilità» del gioco

di Giuseppe Felaco*
In realtà il gioco può e dovrebbe essere sempre anche capacità di interagire con il mondo, un modo di conoscere l'altro, ove nulla sia più diviso in "mio" e "tuo". Un gioco da intendere come "antidoto" all'isolamento che in persone già segnate da sindromi patologiche può solo rinforzare questo stato di fatto, portando le famiglie a comportamenti iperprotettivi, sorta di compensazioni che rischiano però di soffocare la personalità autonoma del bambino/ragazzo

Due bimbi che giocano sull'erbaNel periodo dell’infanzia, i bambini istituscono col reale un rapporto speciale, essenzialmente tramite il gioco, creando – con il possesso e il controllo di tutti gli elementi – un linguaggio globale, come modalità di espressione, oltre che di conoscenza.
Generalmente il gioco è un’attività che viene svalutata, a vantaggio di occupazioni definite “più utili” e “più importanti”, come imparare e accumulare il sapere. Accumulare il sapere! Imparare! È dunque solo questo ciò che conta? Per il gioco vengono ritagliati spazi e determinati i tempi, che molte volte sono una semplice “ricompensa” successiva a continui compromessi. Anche alcune persone autistiche – per attirare l’attenzione e per mettere in pratica alcune delle convenzioni sociali e stabilire una certa relazione con gli altri – utilizzano il gioco nell’apparenza di una sua forma stereotipata.

In realtà  non si è ancora capita la positività creativa e ricreativa contenuta nel gioco, facendo così perdere ai bambini la possibilità di codificazioni alternative e di capacità simboliche utili a conoscere l’Altro. Infatti – attraverso un contatto che utilizzi il corpo nelle sue rappresentazioni tattili e relazionali – il bambino può accedere al linguaggio del corpo, molto più importante di quello verbale. È come una metamorfosi che deve avvenire, quella che rivela una nuova consapevolezza e permette il risveglio alla vita in una manifestazione di sentimenti.
Il gioco, da illusione creativa, diventa allora capacità di interagire con il mondo, dando la possibilità al corpo di “mettere in scena il mondo”, ossia come esso lo pensa e lo racconta. L’apparente inutilità dei comportamenti ludici può essere in realtà un modo di conoscenza dell’altro e per sperimentare questo “luogo comune” cosa c’è di meglio dell’ovvietà di esserci, per sentire, attraverso le emozioni, una distanza che si colma, per avere la possibilità di sentirsi in armonia con se stessi e col mondo con il quale e nel quale si interagisce? Ci vorrebbe insomma un mondo non più diviso in “mio” e “tuo”, dove la cultura dell’interazione nascesse principalmente da una volontà interiore libera di esprimere la pienezza del Sé.

Sembra quasi offensivo e inutile sottolineare che l’isolamento porta inevitabilmente a innesti psicotici, indicativi di una chiusura al mondo esterno, specie se applicata a persone già segnate da sindromi patologiche le quali comportano, automaticamente, proprio il rinchiudersi in se stessi. E dunque la persistenza di questo stato di cose può solo determinare un rinforzo di questo stato di fatto e in particolare portare le famiglie a un comportamento iperprotettivo, in una sorta di compensazione che rischia però di soffocare la personalità autonoma del bambino/ragazzo.
Diventa quasi un'”ingiunzione alla non esistenza” che porta la persona con handicap a fare affidamento solo sulle sue esperienze acquisite, ghettizzata nei centri di riabilitazione o in altre istituzioni simili, come ad esempio i laboratori protetti, per un’attività lavorativa in situazione tutelata. Questi sembrerebbero essere giusti supporti, ma non è così, è solo una delega costante e definitiva in cui l’autonomia rimane esclusivamente al livello dell’autosufficienza di base e non arriva al riconoscimento delle risorse del bambino/ragazzo.
Ecco cosa succede: che lo spazio protettivo e potenziale si riduce in uno spazio dove degli esseri umani sono costretti a vivere la vita “come animali in una gabbia”. Accumulare il sapere! Imparare! È dunque questo, il risultato?

*Genitore.

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