Da tempo, come è noto, siamo sprofondati in un periodo di crisi economica che continua a produrre tagli in tutti i settori, non ultimo quello socio-sanitario. Parlare di riduzione della spesa e di risparmio – soprattutto in questo ambito – è sempre complicato perché in gioco non ci sono solo le condizioni di vita (l’aspetto qualitativo in primis), ma la vita stessa delle persone. Già da molti anni, infatti, si discute e si afferma che la vera necessità è quella di razionalizzare, piuttosto che ridurre in modo indiscriminato le risorse. Era questo il senso originario delle leggi che hanno portato all’aziendalizzazione delle strutture sanitarie e all’introduzione di sistemi di valutazione delle prestazioni correlati a criteri di efficacia ed efficienza. Si voleva cioè mettere le singole strutture in grado di raggiungere il pareggio. Tutto questo, però, ha creato altri problemi e generato nuovi dibattiti, innestandosi su altre delicate tematiche.
Un esempio è quello della riduzione del numero di posti letto, inizialmente legata alla necessità di chiudere piccoli ospedali (a livello teorico meno efficienti, anche se più vicini alle persone), concentrando queste realtà in grandi strutture, per creare e sfruttare le economie di scala. Oggi, invece, sempre più spesso si parla di ridurre i posti letto per contenere la spesa in generale. E tuttavia si tratta di problemi che si trascinano da anni – legislatura dopo legislatura – e che non si possono a mio avviso addebitare alle difficoltà in cui versa il sistema economico mondiale. Eppure, accanto a tutto ciò, si assiste al fiorire di congressi, dichiarazioni d’intenti, relazioni e tanti altri momenti di confronto il cui tema dominante è la ricerca del benessere delle persone. Si parla, ad esempio, della qualità di vita delle persone affette da patologie gravi e invalidanti e l’assistenza domiciliare è stata pensata proprio come “strumento” (modus operandi) per migliorarla, guardando in particolare alla vita di relazione di chi versa in condizioni di salute precaria (anziani e persone con patologie croniche o cronico degenerative). Partendo da ciò, ci si è poi spinti fino a parlare addirittura di ospedalizzazione domiciliare.
Accanto a questo nobile intento, c’è però anche un vivo interesse, da parte del settore sanitario, a ridurre i costi, diminuendo non solo i ricoveri in strutture per pazienti cronici o per anziani, ma anche le degenze in ospedale. Il nosocomio diventa così il luogo preposto alla cura delle patologie acute, alle urgenze e alle emergenze. Ma affinché il sistema – oltre al risparmio – possa garantire anche la qualità delle prestazioni, occorre che il rapporto tra territorio e strutture si dimostri realmente efficiente. La realtà, invece, fotografa una situazione ben diversa, con l’ADI (Assistenza Domiciliare Integrata) che in molte occasioni non si è ancora dimostrata all’altezza dei compiti ad essa affidati. Molte sono infatti le associazioni e le famiglie che denunciano la carenza di tale sistema, la sua incapacità di fornire un aiuto adeguato agli utenti e ai familiari che li seguono (i così detti caregiver).
A parole, quindi, tutto è chiaro, ma la realtà è spesso rappresentata da un castello costruito e mantenuto in piedi dagli sforzi di persone che letteralmente si annullano, pur di aiutare i propri cari e tutto questo avviene un po’ ovunque, anche là dove sembra che tutto funzioni al meglio. Basta leggere i giornali o ascoltare la televisione per scoprire alcuni casi eclatanti, ossia quelli di coloro che decidono di “mettersi in gioco” personalmente – talora anche con clamorose azioni di protesta – per tentare di cambiare il proprio status quo.
Sarebbe per altro sufficiente sentire la voce di tutti i diretti interessati, ossia di tutti coloro che lottano ogni giorno contro questi problemi, per far emergere la realtà. Le indagini sulla qualità percepita del servizio di assistenza domiciliare di solito sembrano molto positive. Occorre però tenere sempre in considerazione che tra coloro che sono seguiti sul territorio vi è un forte sbilanciamento verso fasce di utenti che, per diversi motivi, non sono in grado di esprimersi al meglio o, addirittura, non si esprimono affatto (anziani, persone afasiche o affette da demenza senile ecc). Tra i caregiver, inoltre, sono comprese anche molte badanti straniere che non sanno parlare correttamente la lingua o leggere e compilare i questionari somministrati per eventuali indagini statistiche.
E ancora, i problemi già complessi di queste persone si complicano quando diventa necessario intervenire con cure urgenti. Spesso, infatti, questi pazienti così “fragili” non trovano un posto letto e restano anche per più giorni su una barella, con il rischio delle piaghe da decubito sempre in agguato. In molte occasioni, inoltre, essi non trovano assistenza adeguata (perché il loro “reparto di riferimento” è al completo o non è attrezzato per seguire i casi più gravi). Non meno problematico risulta eseguire esami strumentali urgenti, perché anche il trasporto in ambulanza diventa difficile.
Mi chiedo dunque cosa accadrà a tutte queste persone se i tagli continueranno a ridurre risorse e quindi servizi. Mi chiedo inoltre come possano i familiari farsi carico per anni dell’assistenza, di cui si assumono non solo la fatica, ma anche la responsabilità legata all’atto di cura, ciò che è estremamente pesante dal punto di vista morale, poiché richiede l’esecuzione di atti di tipo sanitario sui propri cari. Penso, ad esempio, a un genitore che deve aspirare un figlio tracheotomizzato o controllare che il respiratore sia perfettamente funzionante. Penso ancora a chi esegue cateterismi vescicali a un proprio parente immobilizzato o prepara e somministra terapie (dovendo, inoltre, far fronte ad eventuali emergenze che si possono verificare, quale, ad esempio, un rigurgito di sangue da catetere venoso centrale) o esegue esercizi di mobilizzazione e così via. I caregiver si accollano, loro malgrado, compiti che in ospedale vengono svolti da infermieri e le pesanti ricadute a livello di stress rischiano di fare ammalare a loro volta coloro che si ritrovano ad assistere.
Mi auguro pertanto che tutti questi aspetti vengano al più presto rivisti, ovvero non è sufficiente continuare a discutere di tagli e della sanità sul territorio; occorre invece porre in atto meccanismi di reale miglioramento del sistema stesso, partendo da un’attenta valutazione del singolo caso. Credo infatti che in sanità generalizzare sia utile per definire programmi, linee guida, porre i paletti per delineare i limiti entro i quali si deve necessariamente operare e per evitare che da zona a zona ci siano disparità di trattamento ingiustificate. Solo sul campo, però, si possono realmente capire le necessità delle persone e solo in tal modo ogni utente può diventare – come si auspica da sempre e da parte di tutti – il fulcro di atti assistenziali, partecipati e consapevoli.