Anonimi, provocatòri («I disabili devono restare a casa» e «I disabili non vogliono lavorare», le frasi riportate), destinati dunque a suscitare discussioni, che per altro si sono spente abbastanza presto. C’è stato chi da subito li ha “presi molto male” (l’Associazione Pro Infirmis li ha definiti semplicemente «offensivi», mentre alcuni deputati hanno presentato interpellanze in Parlamento, con la richiesta di indagare sugli anonimi realizzatori), costringendo i promotori dell’iniziativa (l’UFAS, ovvero l’Ufficio Federale Svizzero per le Assicurazioni sull’Invalidità) ad “uscire subito allo scoperto” e a spiegare la volontà di combattere i pregiudizi che le persone con disabilità devono affrontare tutti i giorni, accelerando così l’avvio della seconda parte della campagna, con nuovi cartelli in cui le frasi precedenti venivano completate in questo modo: «I disabili devono restare a casa, perché non hanno un lavoro» e «I disabili non vogliono lavorare meno degli altri».
In quell’inizio di novembre, per altro, di polemiche pubbliche e sociali in Svizzera non ne mancavano, dopo il referendum sulla presenza o meno dei minareti che aveva visto prevalere il voto dei contrari. E in ogni caso – dopo le precisazioni dell’UFAS – sono arrivati anche gli elogi, ad esempio da parte di Peter Wehrli, leader del Centro Svizzero per la Vita Indipendente, che ha dichiarato: «Per una volta l’UFAS ha avuto il coraggio di prendere il toro per le corna. Non vi sono altri mezzi, infatti, per mettere la gente di fronte ai pregiudizi sull’handicap».
Poi – come dicevamo – le discussioni si sono placate quasi subito, restando per lo più confinate al Paese elvetico. Ma siccome crediamo che in casi come questi “il silenzio non faccia bene”, proviamo a riaprire il dibattito, con la seguente riflessione di Barbara Cannetti, che prende spunto proprio da quella campagna, cercando di individuare i modi più efficaci per smuovere concretamente le coscienze sul problema dei diritti negati alle persone con disabilità. (S.B.)
Una particolarissima azione pubblicitaria, un paio di mesi fa, ha fatto discutere molto, in numerose citta svizzere, con due cartelloni recanti le scritte: «I disabili non vogliono lavorare» e «I disabili sono inutili». Due frasi lapidarie, aspre, giocate su un’evidente inversione del significato dei termini utilizzati.
Lo scopo degli ideatori dell’Ufficio Federale Svizzero per le Assicurazioni sull’Invalidità era quello di attirare l’attenzione e di sensibilizzare la popolazione, in particolare sugli argomenti legati al lavoro e all’utilità della risorsa umana, anche se portatrice di disabilità. Le polemiche sorte a seguito dell’iniziativa evidenziano che l’obiettivo è stato raggiunto, anche se, inevitabilmente, c’è chi si è offeso e chi ha invece approvato, proprio come accadeva con le foto di Oliviero Toscani per le campagne pubblicitarie della Benetton, immagini che, pur sollevando polemiche, hanno in genere ottenuto l’attenzione dei consumatori.
La pubblicità, del resto, da sempre utilizza qualsiasi arma per lanciare messaggi e invogliare il cliente-consumatore ad acquistare prodotti o servizi. Personalmente ritengo che ognuno abbia una propria sensibilità e che pertanto qualsiasi parere in merito sia degno di nota. E tuttavia credo anche che sia più importante – in questo specifico caso – focalizzarsi sulla motivazione che ha indotto a produrre e ad affiggere quei cartelloni (ossia il perché), piuttosto che sulle modalità scelte per veicolare il messaggio stesso (ossia sul come). Credo infatti che se lo scopo è quello di testimoniare e denunciare un problema, una situazione di disagio, una condizione di difficoltà e così via, ogni tipo di messaggio assuma una valenza di utilità sociale. Ben diverso, invece, è il discorso, quando lo scopo è quello di vendere servizi e prodotti.
Pensando a tutto questo e alle modalità anomale impiegate per lanciare provocazioni, non posso non ricordare quanto accaduto nell’estate scorsa sulle spiagge di Ostia, vicino a Roma, con l’iniziativa attuata per denunciare e ricordare le tante persone morte sul luogo di lavoro, consistente nell’esposizione di un manichino ricoperto da un telo bianco cui era appeso un cartello con la scritta: «Senza la giusta protezione, sul lavoro ci lasci la pelle».
Anche in quel caso si trattava di un tentativo di far pensare, attraverso un messaggio fatto di azioni, immagini e testi (l’iniziativa era stata promossa dal gestore del blog sul lavoro Diversamenteoccupati.it) e la necessità di dover ricorrere anche lì a un’iniziativa concepita e attuata in modo provocatorio testimonia di per sé quanta strada vi sia ancora da fare per raggiungere un livello accettabile di inclusione delle persone con disabilità o – nel caso di Ostia – per evitare che il lavoro si trasformi in macchina di morte (senza per altro dimenticare che gli infortuni sul lavoro sono anche la fonte di tanti casi di disabilità acquisita, spesso gravissima).
In questo senso, dunque, credo che la pubblicità sociale possa svolgere un importante ruolo d’informazione e sensibilizzazione, pur essendo, nel nostro Paese, uno strumento ancora poco impiegato o impiegato in modo scarsamente efficace. Pochi sono infatti gli spot che vengono messi in onda e per poche volte, mentre la ripetizione di un messaggio è un elemento molto importante nelle logiche del marketing, perché un avviso pubblicitario – pur essendo molto breve – “cattura l’attenzione” ogni volta che risulta incisivo e viene ripetuto più volte.
In definitiva credo che si possa discutere sul buon gusto di certe scelte, ma non sull’importanza di smuovere le coscienze di tutti e a volte si rischia di soffermarsi più sui particolari che sul quadro generale. Spesso, ad esempio, mi sono chiesta perché ci si offende se si viene chiamati “disabili” invece che “persone disabili”, “diversamente abili” e così via… Su questi argomenti sono stati spesi fiumi di parole, ma ritengo che ancora una volta il problema sia correlato al modo di pensare delle persone più che alla terminologia impiegata. Il rischio, altrimenti, è quello che «tutto cambi, perché tutto resti uguale», come si legge nelle celebri pagine del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
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