Ma come viene attuato realmente in una scuola il GLH [Gruppo di Lavoro Handicap, da Legge 104/92, articolo 15, N.d.R.]?
Di solito funziona così: si fanno due GLH, uno – se tutto va bene – circa un mese dopo l’inizio delle lezioni, l’altro un mese prima che finisca l’anno scolastico. Durata? 15-20 minuti ciascuno – perché se ne devono fare diversi – e poi se si è fortunati o se gli dèi sono favorevoli, c’è anche il preside, che con i rappresentanti ASL si guarda spesso negli occhi, controllando l’orologio per il timore di non stare nei tempi.
Nessuno ha in mano penna e carta per prendere un appunto, nessuno conduce la seduta, demandata completamente all’insegnante di sostegno, che mette insieme nervosamente alcune frasi, perché in molti casi non conosce ancora bene il bambino o forse non ha avuto informazioni da nessuno, oppure cerca di mediare per non mettersi contro tutti. Dal canto loro gli insegnanti curricolari fanno qualche intervento tanto per giustificare la loro presenza e per coprire la mancata conoscenza del precedente PEI (Piano Educativo Individualizzato).
Dal canto suo il genitore prova a chiedere notizie dello stesso PEI (che poi gli faranno firmare) e dei programmi, ma viene liquidato con un sorriso rassicurante, quasi da presa in giro: «Signore, ma quella è solo burocrazia, l’importante è ciò che si fa in classe». Come può a questo punto un genitore credere che quell’inutile commedia passi dalla teoria alla pratica?
Altro quesito: ma chi è esattamente l’insegnante di sostegno? È uno che “dovrebbe essere” esperto dei processi di integrazione, tecnico della programmazione differenziata e del PEI, contitolare nella gestione della classe ecc., ma su come quotidianamente quell’insegnante venga percepito dagli altri colleghi di ruolo che “hanno la classe” e di come essi vivano questo rapporto, è tutta un’altra storia.
In concreto, a molti insegnanti di sostegno è caldamente consigliato di “portarsi fuori” i ragazzi certificati, insieme ai soliti “bulletti rompiscatole” che hanno bisogno di un “approfondimento individualizzato” (tanto per la socializzazione hanno tutte le altre ore). Ma nessuno si chiede mai perché un docente che lavora per l’integrazione di tutta la classe, porti fuori dei ragazzi?
Capita anche che gli chiedano di fare lezione contemporaneamente a un alunno sordo e a uno cieco – solo per fare un esempio – «tanto sono solo due e si possono gestire facilmente (pensa che io ne ho 20!»).
Quante ore, dunque, riescono a fare gli insegnanti di sostegno in classe e quali problemi emergono nella convivenza tra i colleghi? Capita che vengano richiamati al silenzio o che si chieda loro di bussare prima di entrare nella classe anche nelle loro ore. Che vengano mandati a prendere i gessi o la lavagna luminosa. E che si contestino loro le prove differenziate, dopo averli delegati a prepararle. Si contesta ad esempio il riferimento a teorie psicologiche o psicopedagogiche perché «non sono laureati in psicologia» e anche perché «sono cose che devono trattare gli esperti».
Agli esami di fine anno si usano toni burberi e si alza la voce per uniformare le loro valutazioni all’andazzo corrente («metti voti alti, così tutti sono contenti»). Interessante, infine, è notare che nel rapporto con il docente di sostegno, i peggiori docenti curricolari sono proprio quelli che fino all’anno prima e magari per dieci anni avevano insegnato sul sostegno. “Sindrome del liberto”?
A questo punto è necessario un altro quesito fondamentale: come perseguire l’integrazione di un alunno disabile? Ebbene, non significa solo farlo stare in classe, né tanto meno staccato dal resto della classe in un banchetto a parte con l’insegnante di sostegno (dove può stare qui l’integrazione?). Ciò che conta veramente è il clima che si riesce a creare e le attività che si svolgono per coinvolgere tutti. Più di ogni altra cosa tutti devono essere resi consapevoli non della presenza di un “diverso”, ma di un soggetto che ha delle capacità e delle potenzialità. Non si dovrebbe, insomma, sensibilizzare il resto della classe verso un problema, ma far capire che se ci guardiamo un po’ più da vicino, tutti siamo “diversi” e ciascuno, con la sua diversità, può contribuire a insegnare agli altri qualcosa.
Spesso, leggendo riviste specializzate, mi capita di trovare articoli nei quali si evidenzia che l’Italia sia all’avanguardia in materia di integrazione scolastica solo perché ha permesso l’inserimento in classi comuni dei bambini con handicap. Sarà, ma il guaio è che ci siamo fermati lì o quasi.
Educare? Il termine deriva da «tirare fuori», «condurre fuori da» e l’etimologia presuppone che esista qualcosa in ogni uomo che dev’essere scoperto: ogni uomo, quindi, è insieme un mistero e un progetto da realizzare.
*Genitore.
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