Bisogna chiedere di morire per poter vivere con dignità?

di Giorgio Genta*
«Abbiamo la presunzione - scrive Giorgio Genta - di sapere e capire cosa prova la famiglia Crisafulli, perché viviamo in migliaia, noi e i nostri figli, quello che vivono loro», vale a dire promesse sbandierate, sagge parole, ma nessuna azione concreta. E invece è sempre più necessario sostenere nei fatti la famiglia con disabilità, considerando che vi sono tipi di disabilità tanto complesse da richiedere un'assistenza ben più assidua di quella richiesta da una persona in coma

Oriella Orazi, Frammenti di spazioPremessa e aggiornamento “in tempo reale” sulla vicenda di Salvatore Crisafulli, persona con gravissima disabilità di Catania, rispetto alla quale, nei giorni scorsi, era stato annunciato da parte del fratello Pietro un viaggio in Belgio per porre fine alla sua vita tramite un’iniezione letale, forma estrema di protesta contro la risposta debole e insoddisfacente delle istituzioni sanitarie e politiche.
Ne aveva già scritto sulle nostre pagine Franco Bomprezzi (si legga il suo intervento cliccando
qui) e ora possiamo comunicare ai lettori che per il momento il minacciato viaggio slitta di una settimana, dopo un appello lanciato dal vescovo di Catania. Pietro Crisafulli ha però ribadito: «Partiremo dopo, a meno che non arrivi il progetto di assistenza che abbiamo chiesto».
Tali sviluppi, per altro, non tolgono certo attualità alla presente riflessione di Giorgio Genta, rivolta ai lettori e anche – successivamente – a Fabio Albanese, cronista del quotidiano «La Stampa», che il 29 gennaio aveva trattato la vicenda. (S.B.)

Era diventato una sorta di “bandiera”, l’esempio più forte per chi combatte contro mille avversità a favore della vita. Se n’erano interessati – a parole – tutti: il presidente della Repubblica, quello del Consiglio, quello della Regione Sicilia, la Chiesa. E ora? Perché Salvatore chiede di “ammainare bandiera”? Cosa gli ha fatto cambiare idea (speriamo solo come provocazione, per obbligare “i preposti” ad agire)? Cosa lo spinge ora a chiedere, per bocca della famiglia, una morte come suggello dell’abbandono della società?
Abbiamo la presunzione di saperlo e di capirlo. Perché viviamo in migliaia, noi e i nostri figli, quello che vivono Salvatore e la sua famiglia. Le promesse tanto sbandierate (nell’eterna campagna elettorale), le belle lettere con lo stemma della Repubblica, le sagge parole di chi eternamente dice di battersi per i valori veri della società, per i diritti della famiglia: di tutto questo nulla è rimasto, la famiglia di Salvatore è stata lasciata sola e… soli si muore!

Nell’ottobre scorso, alla Terza Conferenza Nazionale sulle Politiche della Disabilità di Torino, nel corso dei lavori del gruppo sul coma e sugli stati di minima coscienza l’avevamo ripetuto con forza: bisogna aiutare davvero la “famiglia con disabilità”, bisogna considerare che vi sono tipi di disabilità così complesse che richiedono un’assistenza ben più assidua di quella richiesta da una persona in coma. Ma cosa è rimasto di tanto discutere? La frase “famiglia con disabilità” è entrata nel lessico ufficiale dei lavori: troppo poco!
Altre volte abbiamo detto e scritto che non vogliamo giudicare chi, oppresso dall’abbandono, dal dolore e dalla fatica esistenziale, sceglie di andarsene, anche se noi siamo per il combattimento, per la resistenza magari disperata, ma lucida e tenace, per la vita con dignità.
Suonino però almeno le trombe del giudizio per chi ha molto promesso e nulla mantenuto! Dove sono i tanto conclamati diritti garantiti dalla Costituzione e dalla coscienza della società? Bisognerà dunque chiedere di morire per poter vivere con dignità?

P.S.: molto si discute, in questi giorni, di “quoziente familiare” e alcuni partiti ne fanno un punto qualificante della loro campagna elettorale. Avranno magari pensato a introdurre un adeguato “moltiplicatore” per i familiari con disabilità gravissima? Oppure sarà la solita beffa tipo “denuncia dei redditi”?

*Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi).

Come accennavamo, contemporaneamente a questa riflessione, Giorgio Genta si è anche rivolto a Fabio Albanese, cronista della «Stampa», che il 29 gennaio scorso aveva trattato la vicenda della famiglia Crisafulli. Infatti, «in quell’articolo, complessivamente equilibrato [titolo: “In viaggio verso la dolce morte”; lo si legga cliccando qui, N.d.R.], ancora una volta a un giornalista sfugge un’espressione terribilmente sbagliata, quando parla di “vita semivegetale”. Si tratta di un insulto, dal momento che nessuna vita umana è “vegetale” o “semivegetale”, ma è sempre e solo una “vita umana“. Vi sono altresì vite che possono perdere la loro dignità per colpa di altri».
Al citato giornalista, dunque, il rappresentante della Federazione Italiana ABC – associazione aderente alla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) – ha scritto nei seguenti termini:

«Gentilissimo Fabio Albanese, ho letto il suo per altro equilibrato  articolo su “La Stampa” del 29 gennaio e sono rimasto veramente sorpreso che a un giornalista della sua esperienza sia sfuggita l’espressione “una vita semivegetale”, riferita a Salvatore Crisafulli.
Un tale modo di qualificare l’esistenza di una persona con disabilità gravissima – oltre che essere profondamente falso – offende l’esistenza delle molte nostre ragazze e ragazzi che vivono esperienze simili.
Nessuna vita umana, per precaria, difficile e dolorosa che sia, può essere parificata a quella di un vegetale. Solo al suo collega Claudio Imprudente, giornalista, scrittore e persona con gravissima disabilità, è lecito paragonare frequentemente la propria “a quella di un geranio”, ma la sua è opera di alta autoironia.
I nostri ragazzi e le nostre ragazze che conducono un’esistenza non dissimile da quella di Salvatore sono, come tutti gli esseri umani, a volte persino soddisfatti di alcuni momenti della loro vita, soprattutto quando si sentono, oltre che amati, parte della società. Non sono vegetali o semivegetali perché vivono un’esistenza biologicamente diversa: pensano, gioiscono o soffrono, comunicano, reagiscono  in maniera differenziata a stimoli esterni. Molti di loro – benché gravissimi – viaggiano, vanno a scuola o all’università, scrivono, leggono e – se i loro genitori hanno abbastanza energie, danaro e inventiva – conducono una vita più piena di quella di molte persone senza disabilità.
Quanto detto senza rancore, solo per amore di verità e dei nostri figli». 
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