Una sorta di «villaggio fantasma», privo di barriere

di Mauro Sarti*
È nei pressi di Whistler, in Canada, il Villaggio Paralimpico dove alloggia anche la delegazione italiana di atleti, tecnici e operatori, durante i Giochi di Vancouver 2010, che si concluderanno il 21 marzo. Grazie al prezioso reportage curato da Mauro Sarti per il «Redattore Sociale» - che riproduciamo per gentile concessione - scopriamo qualche segreto di questa sorta di "villaggio fantasma" senza barriere, dove basta schiacciare un pulsante gigante per fare aprire tutte le porte

Logo delle Paralimpiadi Invernali di Vancouver 2010Un “villaggio fantasma”, praticamente. Un bunker difeso da sistemi di sicurezza internazionali, metal-detector, guardie, controlli incrociati. Quel pass per entrare vale una cifra, e non basta ancora. Serve qualcuno che si pigli la tua responsabilità, che garantisca per te: lo seguirò «like a shadow» [“come un’ombra”, N.d.R.], assicura Stefano Tonali, dello staff del CIP (Comitato Italiano Paralimpico), alle tre volontarie che presidiano l’ultima via d’accesso al Villaggio Paralimpico degli atleti di Whistler, e che si è preso a cuore la situazione. Le signore sembrano fidarsi.
Entriamo. Superata la zona internazionale (bar, un negozio di gadget, un piccolo palcoscenico per le cerimonie), ecco il villaggio che si trova a 8 chilometri dal paese: le strade si chiamano Legacy Way oppure Mountain Fee Road, sono asfaltate di fresco e portano tutte nelle case dei circa quattrocento atleti che gareggiano per lo sci nordico e alpino a queste Paralimpiadi Invernali 2010. Portano nelle sedi delle delegazioni, nelle palestre, alla mensa, alle sale giochi. Che sono due, e sono bellissime. Ci sono il “Monopoly” e la Ui, il biliardo e “Guitar heroes”, poi quel gioco che sembra un palazzetto dello sport trasparente, dove pigiando un tasto salta la pallina da una buca: in Italia si gioca a basket, qui neanche a dirlo è l’hockey. Non mancano nemmeno un pianoforte a mezza coda e un divertente curling in miniatura, dove le “pietre” scivolano su un sottile strato di trucioli di legno. Qui vengono i campioni a rilassarsi in attesa delle gare. Ad ammazzare il tempo, a sfidarsi su terreni meno scivolosi di quelle piste ghiacciate che solcano ogni mattina.

La delegazione italiana è al primo piano di una palazzina rossa e grigia, proprio dopo aver superato il grande capannone bianco della mensa. La bandiera tricolore è appesa alla finestra, accanto a quella americana, perché i condomìni anche qui, come i menù della cucina comune, sono multietnici: nel nostro caso il condominio è composto da USA, Australia, Andorra e, appunto, Italia. Sembra vadano d’accordo. Per ora. Lo conferma anche Domenico che è uno dei sei volontari delle delegazione italiana. Vive a Vancouver da 42 anni, ma è nato a Montalbano, Brindisi, e l’Italia (come dice lui) ce l’ha nel cuore: «Faccio tutto quello che mi chiedono, accompagno gli atleti, faccio commissioni, di tutto un po’, li porto in giro in auto, e mi piace», racconta. «Prima di andare in pensione, facevo l’ingegnere in Air Canada, ora sto seguendo un corso da arbitro di calcio, non hockey, calcio, come in Italia. Qui sta andando alla grande. Mia moglie? È spagnola, si chiama Maria Pilar».
Piano piano viene fuori tutta la sua vita, le figlie Sandrina e Valeria, il babbo perso quando aveva solo pochi mesi, il sogno di potere avere la doppia cittadinanza, pure Berlusconi, sì, una persona valida… E del perché ha scelto di rispondere all’appello per i volontari lanciato mesi fa dal Comitato Paralimpico Internazionale. Ci ascolta Giusy, parrucchiera in pensione, genitori di Treviso, ma poche parole d’italiano in tasca. Scappa subito, deve accompagnare un atleta dal tecnico e farsi sistemare la sedia a ruote: «Sorry». Torna dopo un po’: «Mi è sempre piaciuto fare volontariato, e adesso che ho i figli grandi ho ancora più tempo. Per me è una cosa importante. Ormai con il lavoro ho chiuso da un po’, meglio fare la mamma e aiutare gli altri».
Sei volontari e uno staff tutto italiano formato da un pugno di persone: Massimo, Guya, Mary, Giuseppe, Stefano sono l’anima della delegazione italiana a Whistler. Con loro tre skymen, altrettanti fisioterapisti, un medico sportivo. Il loro piccolo ufficio è aperto dalle 8 alle 21, orario continuato: per organizzare la logistica, la preparazione delle gare, la comunicazione, il sito web, tutto quello che serve per una Paralimpiade. E per degli atleti che vogliono vincere. Poi, la sera, tutti a Casa Italia, nel centro di Whistler, a festeggiare.

«La vita del villaggio – racconta Stefano Tonali – è molto semplice: gli atleti si alzano presto la mattina per andare sulle piste, allenarsi, oppure per andare in palestra. Noi li aiutiamo in tutto, dagli spostamenti alla preparazione atletica e ovviamente un’attenzione particolare serve il giorno delle gare».
Ah, c’è anche un sindaco nel villaggio paralimpico di Whistler. Il primo cittadino ha dato il primo giorno il benvenuto agli atleti, si assicura che la vita del villaggio proceda in maniera eco-sostenibile e ha previsto piccole aree per fumatori nelle periferie della “sua” città. Città che ovviamente è senza barriere architettoniche: anche per aprire le porte basta cercare il pulsante gigante push to open e, voilà, la porta si apre da sola. Ora si può tornare tranquillamente alla normalità delle nostre barriere quotidiane.

*Testo pubblicato da «Redattore Sociale», con il titolo di Whistler, dentro al “villaggio fantasma” degli atleti paralimpici, qui ripreso, con adattamenti minimi, per gentile concessione.

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