Le chiavi vincenti: dal bozzolo alla farfalla

a cura di Barbara Pianca
Le quattro scuole vincitrici delle "Chiavi di Scuola 2009", il noto concorso organizzato dalla FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell'Handicap), sulle buone prassi per l'inclusione scolastica degli alunni con disabilità, ci raccontano quali tra gli ingredienti dei loro progetti hanno fatto la differenza. Li presentiamo dunque in quattro successive interviste, partendo dalla scuola dell'infanzia e dal progetto denominato "Dal bozzolo alla farfalla", che a Venosa (Potenza) ha visto per protagonisti una bimba romena con grave disabilità e due insegnanti di sostegno

La bimba romena protagonista del progetto «Dal bozzolo alla farfalla», che ha vinto il concorso «Le chiavi di Scuola 2009» per la scuola dell'infanziaCom’è già noto a chi ci segue con attenzione, la FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) ha premiato anche quest’anno le quattro scuole vincitrici, una per categoria, delle Chiavi di Scuola 2009, concorso sulle buone prassi per l’inclusione scolastica degli alunni con disabilità, promosso dalla Federazione, con il sostegno, per il terzo anno consecutivo, di Enel Cuore ONLUS (il nostro testo dedicato alla premiazione dei vari vincitori, pubblicato nel mese di febbraio scorso, è raggiungibile cliccando qui).
In questa nostra prima intervista, abbiamo ascoltato il racconto di uno dei due insegnanti di sostegno che hanno avuto un ruolo da protagonisti nel progetto della scuola dell’infanzia risultato vincitore nella propria categoria, intitolato Dal bozzolo alla farfalla e condotto presso la Direzione Didattica Statale Secondo Circolo di Venosa, in provincia di Potenza.

Sergio Laconca è appunto uno dei due insegnanti di sostegno che si è preso cura di una bambina rumena arrivata a scuola all’età di quattro anni e mezzo. I suoi genitori, giovanissimi, l’hanno portata nella nostra penisola nella speranza di trovare per lei una cura almeno parziale. La bimba è ipovedente, sordastra e con problemi di deambulazione tali per cui la diagnosi iniziale parlava addirittura di tetraplegia. Ha trascorso i primi anni di vita in posizione fetale e senza stimoli mirati di movimento. Oggi ha quasi sei anni e dopo un anno nella scuola dell’infanzia, la sua tonicità muscolare è aumentata in modo consistente.

Come avete fatto – chiediamo a Sergio Laconca – a ottenere tali miglioramenti?
«Per quanto riguarda la postura, il rafforzamento muscolare e la tonicità della bambina, lo staff di insegnanti ha lavorato seguendo le istruzioni della neuropsicomotricista. Per quanto mi riguarda, mi sono fatto mostrare da lei le parti specifiche della zona lombare su cui intervenire in modo da ottenere una reazione muscolare. In questo modo, la bambina è stata stimolata non solo durante le ore di neuropsicomotricità e fisioterapia, ma anche nel corso delle mie cinque ore di assistenza giornaliere.
Voglio anche aggiungere che la piccola, essendo ipovedente, aveva cronicizzato una serie di atteggiamenti detti “blindismi” e cioè tipici delle persone non vedenti; ad esempio si dondolava, teneva sempre la testa appoggiata sul banco e sembrava quasi autistica. Nel tempo le autostimolazioni come il dondolio sono andate via via evidenziandosi sempre meno e il tronco del corpo sta diventando sempre più dritto.
Per quanto poi riguarda l’udito, dopo non molto tempo ci siamo accorti che la bambina non era completamente sorda come poteva sembrare. Abbiamo notato ad esempio che sorrideva se c’era una musica ad alto volume. A seguito di questa constatazione si è proceduto con la protesizzazione alle orecchie, avvenuta da poco. Oggi recepisce determinati comandi anche se non urlo. Infine, importantissimo è anche il fatto che ogni tre, quattro mesi viene sottoposta a sedute intensive di due settimane in un istituto specializzato e ogni volta, al suo ritorno, riporta notevoli progressi».

La bimba è in grado di parlare?
«Ora che ha recuperato parzialmente l’udito riesce a pronunciare qualche parola, a farsi capire. Per dire che vuole una caramella dice “ga” e se vuole andare via dice “amo”».

Dal punto di vista della mobilità quali progressi specifici avete registrato?
«Quando è arrivata non camminava e non si sosteneva da sola. Adesso riesce a seguire un percorso tracciato lungo il muro. Le abbiamo allestito un’aula con un cartone lungo una parete. Tastandolo e riconoscendo dei segnali appositi che ormai le sono familiari, riesce ad arrivare alla sua sedia. Oggi inoltre mangia in autonomia. Le riempiamo il cucchiaio e lei lo porta alla bocca. Lo stesso per quanto riguarda il bere e il lavarsi le mani. Abbiamo cercato di proporle un percorso su due fronti: da una parte il recupero delle autonomie e dall’altra la relazione con gli altri».

E su questo secondo punto com’è andata?
«All’inizio ci cacciava tutti. Non voleva nemmeno essere toccata. Ora invece abbiamo conquistato la sua fiducia ed è diventata molto più propositiva. Anche gli altri bambini – all’inizio impauriti dalla sua presenza – oggi la considerano parte della classe. Sono piccoli e perciò di solito le dedicano al massimo pochi minuti d’attenzione, però glieli dedicano. Due bambine, poi, non la lasciano mai e lei le riconosce, si fida e le prende per mano. Fin dall’inizio l’ho presentata come una nuova compagna a cui volere bene e ogni giorno chiedo il coinvolgimento di tutti con azioni semplici. Chiedo ad esempio se c’è qualcuno che le vuole passare il tovagliolo o sollecito altre azioni simili».

Ma come avete fatto a ottenere tutti questi progressi?
Ora la bimba si lava le mani e compie in autonomia altre azioni fondamentali«In qualità di insegnante di sostegno mi sono subito reso conto che per la didattica c’era poco o nulla da fare. In precedenza avevo lavorato in un istituto per persone con disabilità e sapevo che prima di tutto occorre concentrarsi sulle necessità primarie che sono le autonomie: lei non ne aveva alcuna. Non aveva il controllo sfinterico, ad esempio, e tutti i giorni la dovevo cambiare, mentre oggi è lei a darci indicazioni su quando vuole andare in bagno.
Sono convinto che quando una persona, e tanto più un bambino, ha canali ridotti per comunicare con l’esterno – come in questo caso per quanto riguarda il movimento, la vista, l’udito e la parola – “innalza il suo istinto” e si relaziona solo se sente che la persona che ha di fronte la ama. Io le voglio bene come a una figlia e non mi sono posto con atteggiamento da insegnante. L’ho cambiata, l’ho sgridata, le ho dato affetto e fiducia. Credo che sia questa la chiave vincente per permetterle di fidarsi di se stessa e acquisire una sempre maggiore autosufficienza. Devo anche dire però che il dirigente scolastico è sempre stato disponibile, fino a permettermi di formarmi sulle disabilità visive rispetto alle quali non avevo alcuna esperienza pregressa. Anche questo è stato certamente un tassello fondamentale».

Ora come procede il suo recupero dell’autosufficienza?
«Il percorso continua. Abbiamo pensato di provare una nuova strada per renderla sempre più autonoma. Le abbiamo messo davanti un carrellino per potersi muovere nell’ambiente e lei, pur sbattendo qua e là, riesce a muoversi. A volte si alza anche di sua iniziativa, quando si stanca di stare seduta».

Non ha paura?
«Sì, ma le dico di stare tranquilla, le faccio sentire che sono al suo fianco. Se finisce in un vicolo cieco, cerco di tenere una voce tranquilla e le do degli input per cambiare tragitto, facendole capire che non succede niente, deve solo cambiare situazione. A volte si esaspera, come quando gira e gira senza mai trovare il suo posto a sedere, e allora piange, ma piano piano sta facendo sempre maggiori progressi anche a livello di capacità di orientamento».

State sperimentando anche qualcos’altro?
«Il computer. Già prima, attraverso un pulsante, accendeva la musica dello stereo. Ora vorremmo metterle a disposizione diversi pulsanti con cui poter esprimere differenti comandi. Ad esempio per chiedere di bere dell’acqua e così via».

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