Dopo gli eventi che hanno scaldato quest’estate più dell’anticiclone, dopo il tentativo, fortunatamente fallito, da parte della Commissione Bilancio del Senato di addossare, ancora una volta, alla scuola e alla disabilità – o meglio, alla disabilità nella scuola – i costi di una crisi economica che non dipende né dall’una né dall’altra, occorre un minimo di riflessione. Occorre riflettere – magari andando un po’ a ritroso con la memoria – per chiarire la differenza tra spreco, buon investimento e investimento sulla lunga distanza.
Buona parte di noi ricorda Maria Montessori (1870-1952) come l’ultima icona delle banconote da mille lire, forse non sapendo che – con il suo lavoro di medico, filosofo e pedagogista – la sua figura ha costiuito una vera e propria pietra miliare nella storia dell’educazione. Non solo per aver riconosciuto la centralità dell’alunno all’interno del processo di apprendimento, ma anche per avere ideato strumenti didattici per l’istruzione dei bambini con problemi psichici. Riconoscendo loro, in questo modo, una dignità fino a quel momento totalmente negata.
Un’altra pietra miliare in questo campo è senza ombra di dubbio don Lorenzo Milani (1923-1967), che in una minuscola località del Mugello (Barbiana), ha unito all’esercizio del suo Ministero Sacerdotale un importante progetto educativo. Egli, infatti, aprì una scuola per i figli dei contadini che vivevano in paese e nelle arre rurali circostanti, in cui sperimentò metodologie didattiche che oggi si fregiano di nomi altisonanti come didattica laboratoriale e cooperative-learning (“apprendimento cooperativo”). Grazie alla metodologia – allora molto alternativa – di don Milani, i ragazzi che hanno frequentato la sua scuola si sono trovati nella condizione di poter scegliere un futuro diverso da quello che la vita aveva loro cucito addosso.
Con alle spalle esempi di tale portata, il nostro Paese dovrebbe avere una scuola pubblica all’avanguardia, capace di rispondere adeguatamente alle esigenze di tutti gli alunni e gli studenti, siano essi disabili, stranieri, nomadi, svantaggiati dal punto di vista socio-culturale, demotivati e, naturalmente, bravi e volonterosi. Una scuola in grado di offrire a ciascuno l’opportunità di emanciparsi da un certo tipo di condizione o, semplicemente, di migliorare socialmente, culturalmente ed economicamente. Purtroppo non è così.
Viviamo in una società in cui il motto I care (“Mi interessa”), adottato per la prima volta proprio da don Milani, viene surclassato dal motto contrario “Me ne frego”. Viviamo in un contesto politico-sociale in cui prevale una visione dello Stato meramente aziendalistica, secondo cui bisogna “tagliare” perché rappresenta unicamente uno spreco tutto ciò che non è immediatamente quantificabile in punti di PIL: per i non addetti ai lavori si tratta dell’acronimo di Prodotto Interno Lordo, ovvero il parametro con cui si misura la ricchezza di un Paese.
Viviamo in una società talmente frenetica, bramosa e impaziente che sembra aver dimenticato – oppure sembra non voler più accettare – che i frutti, per maturare ed essere colti, hanno bisogno del loro tempo.
Il settore istruzione, non contribuendo direttamente e immediatamente all’innalzamento del PIL, è una delle vittime delle sempre più affilate scuri ministeriali. Di conseguenza la scuola si trova a far fronte al decremento delle risorse umane, economiche e culturali (tagli al personale, ai fondi d’istituto e al tempo scuola), potendo contare sul solo incremento del numero minimo degli alunni per classe. A proposito di quest’ultimo aspetto, non è certo da dimenticare il tentativo – ingiusto e ingiustificabile sotto ogni aspetto – messo in atto dalla Commissione Bilancio del Senato, di derogare alla norma che fissa a venti il numero massimo degli alunni nelle classi in cui frequentano bambini o ragazzi con disabilità. Tentativo che, se fosse andato in porto, avrebbe influito negativamente sulla qualità dell’apprendimento anche di chi non si è sentito chiamato direttamente in causa.
Naturalmente la scuola pubblica rimane aperta a tutti, perché così sancisce l’articolo 34 della nostra Carta Costituzionale, ma in queste condizioni come può rispondere adeguatamente alle necessità di tutti e offrire un’opportunità a ciascuno, specie a coloro che sono già stati penalizzati, anche in modo grave, dalla vita?
Le menti più aperte e lungimiranti sanno con certezza che, in un Paese che si definisce moderno, civile e democratico, una buona istruzione, oltre ad essere un diritto inalienabile di ogni Cittadino, rappresenta anche un valido investimento per il futuro dell’intera collettività. Dietro i banchi delle nostre scuole potrebbero sedere futuri scienziati come Fulvio Frisone, oppure scrittori di fama internazionale del calibro di Roberto Saviano, che potrebbero non aver modo di esprimere al massimo le proprie potenzialità. E il decorso non cambierebbe se le nostre scuole fossero frequentate solamente da futuri adulti privati dell’opportunità di diventare Cittadini onesti, competenti, realizzati e consapevoli dei propri diritti come dei propri doveri; anche in questo caso, infatti, le perdite sarebbero veramente ingenti, pur se non direttamente quantificabili in punti di PIL.
*Insegnante di sostegno. Membro della Segreteria del Comitato di Coordinamento Pavese per i Problemi dell’Handicap (coordpvhandy@yahoo.it).
Sull’emendamento (poi ritirato) riguardante il numero degli alunni nelle classi, segnaliamo invece gli articoli intitolati Eliminato l’emendamento: vincono le associazioni e soprattutto le persone con disabilità (cliccare qui) e il recentissimo approfondimento di Salvatore Nocera, dal titolo Il ritiro di quell’emendamento può diventare un punto di forza (cliccare qui).
Di Maria Assunta Cobelli, infine, Autrice del presente articolo, ricordiamo anche il resoconto della manifestazione nazionale del 7 luglio scorso a Roma, da noi pubblicato con il titolo Niente di ciò che è umano mi è indifferente (cliccare qui).
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