Questa settimana si celebra il ventesimo anniversario dell’ADA (Americans with Disabilities Act), legge entrata in vigore appunto il 26 luglio 1990, che certamente è uno dei provvedimenti “storici” in ambito di diritti umani negli Stati Uniti e anche uno dei più significativi risultati a livello nazionale ottenuti dalla presidenza di Bush senior.
Infatti, nonostante persista una serie di problemi – specie per quanto concerne l’accesso al lavoro – si può dire che quella norma abbia letteralmente trasformato gli Stati Uniti, migliorando la vita di 50 milioni di persone con disabilità (la metà di loro con gravi disabilità) e fornendo un modello per gran parte del mondo.
Secondo Robert Burgdorf Jr, docente di Diritti all’Università del District of Columbia, che ne aveva redatto la bozza iniziale, «l’ADA ha cambiato la percezione della società americana e le aspettative rispetto al ruolo delle persone con disabilità, oltre a fissare l’obbligo, da parte del Paese, di realizzare una serie di interventi necessari ad assicurare la piena partecipazione a quel segmento di popolazione».
I progressi più evidenti si sono riscontrati senz’altro dal punto di vista dell’accessibilità, con la realizzazione quanto mai diffusa di scivoli e rampe, nei trasporti e per accedere ai servizi pubblici. «Questa Legge – ha dichiarato Andy Imparato, presidente dell’AAPD (American Association of People with Disabilities) – ha modificato il modo in cui gli americani si muovono e si relazionano con le loro comunità». E citando la storica Sentenza del 1954 che dichiarò come incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole pubbliche (Brown v. Board of Education of Topeka et Al.), garantendo pari opportunità agli studenti afro-americani, Imparato ha aggiunto: «L’ADA rappresenta il nostro Brown v. Board of Education!».
Per quanto poi concerne l’impatto di quella Legge nel resto del mondo, esso è stato evidente. Si può sostenere ad esempio, senza troppi problemi, che il testo abbia rappresentato una sorta di “catalizzatore” per la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Inoltre, in Giappone si sta sviluppando una legge ad hoc sulla scorta dell’ADA e molti Paesi in via di sviluppo stanno tenendo in considerazione la norma come un modello per cominciare ad occuparsi concretamente di queste problematiche.
Questo fa dire a Tanya Gallagher dell’Istituto di Ricerca sulla Disabilità dell’Università dell’Illinois, che gli Stati Uniti «sono ancora i primi nel mondo per la tutela dei diritti dei cittadini con disabilità».
In tema di salute, di accesso alla tecnologia e specialmente di lavoro, restano però molte sfide ancora aperte, con una situazione non del tutto incoraggiante.
Ad esempio, il dato delle persone con disabilità disoccupate negli Stati Uniti si attesta ufficialmente al 14,3%, quasi il doppio rispetto a quello dei lavoratori non disabili. Considerando tuttavia che questa cifra tiene in considerazione solamente le persone che stanno cercando un lavoro, il reale livello di disoccupazione, per gli esperti, supererebbe con tutta probabilità il 50%.
Ci sono per altro aziende negli Stati Uniti che hanno adottato un’energica politica nelle assunzioni di lavoratori con disabilità. Peter Blanck, presidente del Burton Blatt Institute alla Syracuse University (Stato di New York), ha recentemente condotto un’indagine su trentamila lavoratori con disabilità, impiegati in quattordici differenti società.
Da tale studio è emerso tra l’altro che in aziende considerate dai dipendenti come disability friendly (“ben disposte” nei confronti della disabilità), che forniscono cioè un maggior numero di accomodamenti, flessibilità e in genere minor rigidità, le disparità nei salari, nel mantenimento dell’impiego e i problemi sul posto di lavoro sono praticamente scomparsi.
In una recente intervista, il professor Black ha citato alcuni esempi di tali compagnie, vale a dire Microsoft, Sears Roebuck & Co e Procter & Gamble.
Dal canto loro, i tribunali – e soprattutto nel caso dei giudici maggiormente conservatori, dalle corti più basse fino alla Corte Suprema – hanno emesso una serie di decisioni “anti-ADA”, spesso respingendo sommariamente i ricorsi riguardanti casi di discriminazione e limitando sostanzilamente i diritti civili prescritti da quella norma. Tuttavia, il Congresso attualmente in carica ha approvato l’emendamento all’ADA del 2008, che ha rovesciato un gran numero di quelle decisioni da parte dei tribunali facilitando il ricorso al procedimento legale da parte delle persone con disabilità.
Nemmeno nell’arena politica i problemi sono scomparsi. Pochi mesi fa, infatti, Rand Paul, candidato repubblicano per la carica a senatore del Kentucky, ha respinto gli impegni presi dal Governo, dichiarando semplicemente: «Ritengo che se tu hai un ufficio a due piani e assumi una persona handicappata [“handicapped” nell’originale, N.d.R.], è più ragionevole farle avere un ufficio al primo piano, che non dotarsi di un ascensore da 100.000 dollari, come vorrebbe il Governo».
Al di là del fatto che la maggior parte delle organizzazioni delle persone con disabilità considerano come peggiorativo il termine handicappato – che ha avuto origine nell’Inghilterra Elisabettiana, quando le persone con disabilità erano costrette a mendicare per la strada [da “Hand in cap”, ovvero “mano nel cappello”, N.d.R.] – va detto che, contrariamente alle asserzioni di Rand Paul, i costi per l’accessibilità di strutture pubbliche e private sono stati relativamente esigui.
Per quanto poi riguarda il settore sanitario, a seguito della crisi finanziaria, molti Stati stanno mettendo in atto una riduzione drastica del Medicaid [programma federale sanitario che provvede a fornire aiuti agli individui e alle famiglie con basso reddito, N.d.R.], colpendo spesso in modo del tutto sproporzionato proprio le persone con disabilità. Lo Stato dell’Arizona, ad esempio, sta tagliando più di un terzo dei servizi destinati alla salute mentale.
E su un altro fronte – nonostante le già citate decisioni controverse da parte dei tribunali – Elena Kagan, candidato designato alla Corte Suprema, nel corso della sua audizione di conferma non è mai stata interpellata su questioni attinenti all’ADA. Infatti, di fronte all’unico fugace riferimento alla disabilità, quattro senatori l’hanno invece letteralmente messa “sulla griglia” in ambito di aborto, termine menzionato ben trentotto volte durante l’audizione.
E nonostante tutto ciò, il progresso negli atteggiamenti politici, sociali e anche nel mondo degli affari, è molto importante. Basti pensare che la legge sulla riforma della sanità approvata quest’anno ha proibito alle compagnie di assicurazione di negare la copertura sulla base di preesistenti condizioni mediche. Un vero e proprio trionfo, questo, per le persone con disabilità.
La scorsa settimana, poi, il democratico californiano Henry Waxman, presidente dell’House Energy and Commerce Committee (“Comitato della Casa Bianca sull’Energia e il Commercio”), ha presentato una misura per aggiornare la parte dell’ADA in cui si parla di telecomunicazioni, tenendo conto degli avvenuti sviluppi tecnologici di questi decenni. In tale provvedimento, ad esempio, viene richiesto che gli smartphone siano più accessibili alle persone con disabilità e che i video online prevedano la sottotitolazione.
E tuttavia – così come sempre succede per le grandi lotte sui diritti civili e contro le discriminazioni razziali – uno dei più importanti risultati è proprio quello che riguarda l’atteggiamento dell’opinione pubblica. «Senza l’ADA – sottolinea Tanya Gallagher – l’ignoranza riguardo alle abilità e alle potenzialità delle persone con disabilità sarebbe molto più diffusa».
I progressi, quindi, da quando il presidente Bush Senior firmò il provvedimento nell’estate del 1990 sono stati considerevoli e va registrato anche un marcato divario generazionale, che vede i giovani maggiormente a proprio agio e propensi ad accettare le persone con disabilità, ciò che è assolutamente di buon auspicio.
Senza dimenticare, per concludere, che il cambiamento più degno di nota si è avuto proprio per le persone maggiormente interessate, in quanto direttamente coinvolte. «L’ADA – afferma infatti Andy Imparato – ha aiutato le persone con disabilità a pensare alla loro condizione inserita in una dimensione di diritti civili e di eguaglianza e non semplicemente di politica sanitaria o di welfare. L’ADA ci ha insomma restituito il diritto di parlare della nostra disabilità e non di vergognarcene».
*Traduzione e adattamento, in collaborazione con Stefano Borgato, di un articolo di Albert R. Hunt, pubblicato il 25 luglio 2010 da «The New York Times». Il testo originale è disponibile cliccando qui.