Riteniamo quanto mai utile il dibattito lanciato qualche tempo fa dalla LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità), nel proprio sito di approfondimento (Persone con disabilità.it), riguardante la necessità di ripensare le RSD (Residenze Sanitarie Assistenziali per Persone con Disabilità), strutture avviate in Lombardia sette anni fa, che oggi accolgono oltre 3.500 persone in 77 diversi siti.
Tanti e tutti interessanti, infatti, sono stati i contributi raccolti dopo quel primo lancio, che anche Superando intende far proprio, riprendendone il contenuto integrale. Ad elaborarlo sono stati Giovanni Merlo, Guido De Vecchi e Paolo Aliata, che nella LEDHA sono rispettivamente direttore, responsabile dello Spazio Residenzialità e componente di quest’ultimo settore.
A seguire abbiamo scelto una delle varie testimonianze raccolte, che ci è sembrata particolarmente significativa e che gli stessi coordinatori della LEDHA hanno definito come «scioccante»: è quella di Anna, un’operatrice di RSD.
RSD: un servizio da ripensare?
di Giovanni Merlo*, Guido De Vecchi** e Paolo Aliata***
Sette anni, forse, possono essere pochi per considerare conclusa la fase sperimentale di un nuovo servizio. Sette anni possono essere sufficienti per cogliere la tendenza, nelle diverse esperienze, dei tratti essenziali che lo caratterizzano. Sette anni sono comunque tanti per le persone che nelle RSD sono accolti, accuditi e che lì vivono, a rischio di discriminazione.
L’RSD, “Residenza Sanitario Assistenziale per Persone con Disabilità”, è un’unità di offerta definita con la Delibera Regionale n. 12620 del 7 aprile 2003. Nell’RSD sono confluite le precedenti tipologie di residenze per le persone con disabilità: i Centri Residenziali per Handicappati (CRH) e gli Istituti Educativi Assistenziali per handicappati (IEAH). Come riportato nell’Allegato A alla Delibera stessa (Standard strutturali), l’RSD «tra le tipologie della classe residenze sanitarie assistenziali, è quella specificatamente destinata all’area della disabilità grave». Prevede come destinatari «le persone con meno di 65 anni non assistibili a domicilio nelle condizioni di disabilità fisica, psichica, sensoriali, dipendenti da qualsiasi causa, misurate dalla schede individuali disabili».
In questi sette anni abbiamo potuto verificare che le persone che hanno bussato e bussano alla porta delle RSD sono davvero tante. L’RSD è – tra le soluzioni residenziali – la tipologia di servizio che accoglie il maggior numero di persone, segno di una difficoltà da parte di servizi meno “protettivi”, sia di natura sanitaria (come le Comunità Socio Sanitarie – CSS) o esclusivamente sociale (come le Comunità Alloggio e gli Appartamenti Protetti), di diventare una proposta strutturata e diffusa su tutto il territorio regionale.
Una delle caratteristiche dell’RSD è che deve provvedere in toto alle esigenze della persona. Dai nostri diversi punti di osservazione abbiamo assistito – anche nelle nuove RSD che nel frattempo sono sorte – a un progressivo ripiegarsi verso il modello “istituto totale” che per molti anni abbiamo cercato di contrastare perché non rispettoso dei diritti delle persone con disabilità.
Anche laddove encomiabili sforzi di enti gestori, coordinatori, équipe e operatori si sono orientati a garantire le migliori condizioni di vita dei loro “ospiti”, abbiamo visto prevalere il rischio di discriminazione e segregazione, come se fosse insito nella natura stessa del modello RSD. Abbiamo incontrato realtà molto diverse tra di loro e sia i limiti delle migliori esperienze che i gravi problemi riscontrati in quelle peggiori, ci fanno affermare che le criticità evidenziate nelle RSD lombarde siano solo in parte imputabili alla cultura degli operatori, ma che siano in qualche modo connaturate alle caratteristiche previste dalla delibera istitutiva.
Ma quali sono – secondo il nostro sguardo – questi elementi che “chiudono” le RSD? Innanzitutto le dimensioni. Il limite dei venti posti per unità di offerta è di fatto aggirato dalla possibilità di gestire tre nuclei contemporaneamente e quindi di fatto a ricreare strutture con numeri fino a sessanta posti.
Con questi numeri garantire un buona qualità di vita ad ogni singola persona, fatta di storia, desideri, è molto difficile. La “gestione” non può che essere standardizzata, per proposte predefinite e non l’esito di un incontro tra un desiderio e una possibilità, nel rispetto dei diritti di tutti e di ciascuno.
La Delibera prevede poi che l’ente gestore si prenda carico completamente delle esigenze delle persone, ivi compresi gli aspetti sanitari, riabilitativi e occupazionali, non prevedendo né richiedendo esplicitamente legami e interazioni con il territorio circostante. L’RSD diventa quindi realtà autoreferenziale ed esclusiva e non inclusiva: vengono limitate le possibilità di incontro, scambio ed esperienza con il “resto” del mondo, con ciò che è “fuori confine”.
A questa fatica di uscire e incontrare corrisponde poi una resistenza a “far entrare” e a farsi contaminare da ciò che vien da fuori, che porta valore e creatività come, ad esempio, le associazioni di volontariato.
E ancora, a questa riduzione o assenza di legami nella spazialità, ne corrisponde una nella temporalità: abbiamo incontrato persone “inserite” in un servizio in cui è difficile – a volte impossibile – creare connessione tra il loro passato, il loro presente e il loro futuro, tra come si è vissuto fino al giorno prima e come si vivrà da quel giorno in poi. È una vita in cui il passato non influisce sul presente e un presente che non prepara un futuro.
L’esito è la proposta agli “ospiti” di una vita con luoghi, ritmi e contenuti definiti in modo standardizzato dall’organizzazione stessa: abbiamo conosciuto persone che si alzano tutte ogni giorno alla stessa ora, per fare ogni giorno le stesse attività, mangiare lo stesso cibo e coricarsi tutte alla stessa ora. Una vita che non sa di “casa”, nei suoi elementi, valori, significati che sono quelli dell’abitare e validi per tutti. Una vita non sostenuta da un progetto che vede un luogo e un tempo, non per sempre, ma in funzione della storia, delle aspirazioni, delle condizioni della persona che è protagonista e autore di quella vita.
L’RSD, insomma, rischia di essere un “non luogo”, “per sempre”. Un non luogo perché tutto è già dato, fermo e deciso. Per sempre perché non è di passaggio e in continuità con altre situazioni residenziali possibili, da valutare in funzione della storia, gusti, condizione della persona con disabilità. Per sempre perché rischia di essere anche il luogo in cui la persona con disabilità passa il resto della sua vita, richiamando il destino delle RSA (Residenze Sanitario Assistenziali per Anziani), con cui la RSD condivide non solo due iniziali.
L’articolo 19 (Vita indipendente ed inclusione) della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità sancisce al punto a) «l’impegno degli Stati Parti» (e il Parlamento Italiano ha ratificato la Convenzione il 24 febbraio 2009) a fare in modo che «le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, sulla base di eguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione abitativa». Siamo certo ben lontani dal concreto riconoscimento di questo diritto per le persone con disabilità.
Per questo motivo siamo disponibili e interessati a lavorare – nello spirito di progressività che la stessa Convenzione ONU ci insegna – per migliore la situazione, quando intravediamo la possibilità di sostenere percorsi di inclusione e di rispetto della dignità delle persone con disabilità.
Le nostre esperienze di incontro con le RSD ci dicono che questi servizi, per loro “natura”, non possono essere luoghi dove i diritti umani delle persone con disabilità possano essere promossi, protetti e garantiti. Temiamo invece di essere di fronte a un rischio di regressione: il progressivo innalzarsi delle aspettative di vita delle persone con disabilità sta portando alle soglie dei servizi residenziali la prima generazione di persone che – grazie all’impegno e al lavoro delle famiglie – è sfuggita alle precoce istituzionalizzazione. Oggi queste persone rischiano di vivere – e oggi già in parte vivono – in istituti che, certo, non sono le mega-istituzioni del Novecento, ma che ne riprendono, nei tratti essenziali, l’organizzazione e vedono vanificare percorsi di miglioramento ed emancipazione.
Per questi motivi e con le nostre esperienze, riteniamo che sia importante e urgente avviare una riflessione sulla situazione complessiva delle RSD in Lombardia, per verificare se e cosa sia importante modificare nell’impianto della Delibera che sette anni fa le ha istituite.
*Direttore della LEDHA (Lega per i Diritti delle Persone con Disabilità).
**Responsabile dello Spazio Residenzialità della LEDHA.
***Componente dello Spazio Residenzialità della LEDHA.
Tutto dev’essere funzionale a un protocollo…
di Anna (Operatrice RSD – Residenza Sanitaria Assistenziale per Persone con Disabilità)
Dopo diversi anni di lavoro all’interno di strutture socio-sanitarie a contatto con persone con disabilità intellettiva e fisica, mi trovo oggi a fronteggiare una terribile situazione nella RSD in cui lavoro. La vita è scandita da ritmi severi e standardizzati che opprimono le libertà individuali.
Dopo la sveglia, ogni persona viene lavata, vestita, e portata nella sala della colazione. Spesso gli operatori svolgono queste azioni ignorando totalmente le persone verso le quali sono rivolte. Le esigenze personali di ciascuno passano in secondo piano rispetto alla routine. Alcune mattine capita che gli operatori chiacchierino fra di loro a voce alta, a volte urlano, noncuranti delle persone che stanno assistendo. Spesso litigano, oppure ascoltano la musica.
La colazione dura due ore, durante le quali non è permesso alzarsi troppe volte dal tavolo, allontanarsi dalla sala o chiedere continuamente un bicchiere d’acqua o di andare al bagno. Le conversazioni tra operatori continuano a voci sempre più alte e si stizziscono se vengono interrotte da chi vuole un’altra tazza di tè o un altro biscotto.
Finita la colazione, due operatori accompagnano la maggior parte delle persone in un’unica stanza a guardare la TV. Poche volte si organizzano giochi o attività di gruppo, come previsto dal programma giornaliero.
Il pranzo è a mezzogiorno e dura mezz’ora. Poi riposo pomeridiano. Alle 15 e un quarto si fa merenda. Ore 16 in punto di nuovo in sala TV a vedere un programma che sceglie lo stesso operatore, non in base a un protocollo o alle preferenze dei pazienti, ma secondo il proprio gusto.
Alle 18 si cena, categoricamente già in pigiama, e successivamente, con orario massimo delle 19, tutti a letto.
Durante la notte non è possibile chiedere di essere cambiato in un momento non prestabilito o “non opportuno”.
Gli operatori si ostacolano tra di loro, rendendo la collaborazione scarsa o inesistente, la figura medica è spesso assente, mentre il gruppo dirigenziale è impegnato a curare solamente l’immagine esterna della struttura.
Le persone presenti nella struttura vengono raggruppate indipendentemente dalla fascia d’età, sesso o tipo di disabilità o disagio psichico. Non si cerca di migliorare la loro qualità della vita attraverso l’accoglienza, l’ascolto e la personalizzazione degli ambienti. Le famiglie spesso stanche, in cerca di un appoggio, si trovano di fronte all’incomprensione. Vengono sgridate se assillano gli operatori con richieste di informazioni sullo stato di salute del proprio parente.
Tutto dev’essere funzionale, sì, ma a un ritmo di lavoro, a una prassi, a un protocollo.
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