Ma come si possono risolvere i problemi di relazione di un bambino autistico isolandolo dai compagni (immaginando poi come si possa sentire un bimbo che sta sempre con gli stessi adulti, anche nei momenti di ricreazione)?
In realtà non si vuole accettare il fatto che la responsabilità dell’integrazione dell’alunno in situazione di handicap e dell’azione educativa svolta nei suoi confronti è, al medesimo titolo, dell’insegnante di sostegno, degli altri docenti di classe e della comunità scolastica nel suo insieme e il cosiddetto “Progetto (o Piano) Educativo Individualizzato” (PEI) va usato in modo che l’alunno venga integrato con l’interazione nel contesto classe, anziché isolato in nome di uno sterile nozionismo.
Tutti i docenti, quindi, devono farsi carico della programmazione, dell’attuazione e della verifica degli interventi didattico-educativi previsti dal Piano Individualizzato e spetta a loro – in accordo con l’insegnante di sostegno – realizzare quel progetto, anche quando quest’ultimo non sia presente in aula.
Ciò in particolare per evitare i “tempi vuoti” che purtroppo spesso si verificano nella vita scolastica degli alunni con disabilità, travisando così il principio stesso dell’integrazione che è quello di fare agire il più possibile il soggetto insieme ai suoi compagni di classe.
Per quanto poi riguarda l’intervento dell’insegnante di sostegno, il suo obiettivo preminente dovrebbe essere quello della socializzazione, superando attività educative di tipo “1:1” con il bambino – ciò che lo “isola” dal gruppo classe – e puntando invece a facilitare/assistere il bambino stesso affinché stia autonomamente in classe, rispettoso delle regole “del gruppo”.
In questa prospettiva tale supporto scolastico – se applicato in modo corretto – tenderà per sua natura a ridursi progressivamente, via via che il bambino acquisirà un certo grado di autonomia. Solo così, infatti, egli potrà essere realmente inserito e acquisire gradualmente la capacità di stare in classe e di relazionarsi a insegnanti e compagni autonomamente, indipendentemente dalla presenza del personale di supporto.
È indispensabile invece che il rapporto “1:1” sia per lo più a casa, e nel corso del setting riabilitativo, per consentire al bimbo di “acquisire” nel più breve tempo possibile un certo grado di autonomia, eseguendo le istruzioni date dai docenti curricolari, le regole sociali e le routine della classe.
Nello specifico caso dei bambini con disturbi pervasivi dello sviluppo (DPS), l’interazione tra loro e i compagni “tipici” non è fluida, come normalmente accade tra coetanei: il bambino con DPS, infatti, non capisce bene come interagire con un coetaneo e d’altra parte un ragazzo “tipico” può trovare laborioso interagire con il suo amico “speciale”. Laddove poi a questa difficoltà di interazione insita nella natura stessa del disturbo, si aggiunga l’interferenza di comportamenti disadattivi che possono rendere quel bimbo “diverso” agli occhi dei coetanei, si crea solitamente una “barriera” che impedisce ai coetanei stessi di relazionarsi con lui. E ciò nonostante, tali relazioni sono assolutamente vitali per lo sviluppo emozionale di un bambino affetto da tale patologia.
Sicuramente, dunque, il principale obiettivo che si deve perseguire nell’inserimento scolastico di un bambino con questi tipi di disabilità, è proprio quello di introdurlo in un contesto di coetanei con i quali non può fare a meno di avere scambi socio-comunicativi. Ed è così che la scuola può realmente diventare la “palestra privilegiata” della sua capacità di relazionarsi con gli altri.
Senza dimenticare, per altro, che – come enfatizzato dalla più recente letteratura – spesso un bambino con disturbi pervasivi dello sviluppo, quando manifesta comportamenti disadattivi ad alta frequenza, finisce per essere “isolato dal gruppo” che si limita a “prendersi cura di lui”, ma non lo coinvolge in attività che sono fondamentali per la crescita emozionale di qualunque persona (feste, occasioni di incontro ecc.).
*Genitore.
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