Quelle scuole particolarmente attrezzate e l’inclusione

di Salvatore Nocera*
Sono numerose le ragioni che fanno bocciare la proposta "efficientistica" di concentrare tutti gli alunni con disabilità - due per classi - in un determinato numero di scuole primarie e secondarie di primo grado, allo scopo di utilizzare più efficacemente le scarse risorse finanziarie e umane. Anche perché in tempi come questi, assai pericolosi per l'inclusione scolastica, una proposta del genere evoca un ritorno al passato che si vorrebbe definitivamente archiviato

Ragazzina in carrozzina insieme a compagni di scuolaHo letto con molta attenzione l’articolo di Giovanni Mordente pubblicato da Superando, con il titolo Scuola e inclusione: un po’ di dati e qualche proposta [lo si veda cliccando qui, N.d.R.]. Tale testo è interessante per alcune novità informative, come quella relativa al numero di alunni con disabilità raffrontati in alcune Regioni, come la Lombardia, la Campania, la Puglia e il Piemonte. Singolari, per altro, le deduzioni che se ne traggono, secondo cui in Campania e Puglia non verrebbero certificati come disabilità quei casi “borderline” che invece verrebbero certificati come tali in Lombardia e Piemonte. Ciò invero contrasterebbe con quanto ritenuto comunemente e che fu fatto oggetto di un’indagine da parte di Valentina Aprea – sottosegretario all’Istruzione dal 2001 al 2006 – la quale, proprio prendendo spunto dalla convinzione che al Sud si sia in genere “di manica larga” nelle certificazioni, fece approvare l’articolo 35, comma 7 della Legge 289/02, secondo cui le certificazioni di disabilità avrebbero dovuto essere effettuate rigorosamente, alla luce dell’articolo 3 della Legge quadro 104/92, e non più da un singolo specialista, ma da una commissione delle ASL.

Ma ancor più interessante risulta l’articolo per la proposta “efficientistica” di concentrare tutti gli alunni con disabilità – due per classe – in sole cinquemila scuole primarie e secondarie di primo grado, anche, sembrerebbe, suddivisi per otto tipologie di minorazione. Ciò favorirebbe una più efficace utilizzazione delle scarse risorse finanziarie e umane, in modo da avvantaggiare sia l'”eccellenza” degli alunni con disabilità che quella dei compagni non disabili; infatti “queste due minoranze di eccellenze” oggi sarebbero troppo disperse, non potendo quindi fruire dei vantaggi di una concentrazione di investimenti.
Ho parlato di “proposta efficientistica” poiché essa era già stata avanzata alla fine degli anni Settanta – e in  parte realizzata per gli alunni con disabilità – come ad esempio con le scuole particolarmente attrezzate in Liguria. Io allora, e negli anni successivi, dopo avere analizzato tale formula organizzativa, presi una posizione decisamente contraria e scrissi anzi un capitolo in tal senso nel volume Handicappati gravi e gravissimi: è possibile l’integrazione nelle scuole per tutti? Esperienze a confronto (Fondazione Zancan, 1988).
Quelle che esporrò qui di seguito sono le ragioni che mi indussero a tale posizione e che si sono andate ulteriormente rafforzando nel tempo.

1. La novità dell’inclusione scolastica, come la sperimentammo e la realizzammo a partire dalla fine degli anni Sessanta in Italia, non si basava solo sul fatto dell’inserimento di un alunno con disabilità in una classe di coetanei non disabili, ma aveva come altro presupposto ineliminabile la frequenza della scuola di quartiere, specie trattandosi di scuola del primo ciclo (infanzia, primaria e secondaria di primo grado); è infatti la convivenza con i coetanei di quartiere che consente di realizzare legami affettivi anche fuori dell’orario scolastico e quindi di attuare una vera integrazione anche sociale. Inoltre, la frequenza della scuola di quartiere abitua la comunità locale – Istituzioni e Cittadini – a vivere con le persone con disabilità e ad adeguarsi ai loro bisogni, adattando anche l’ambiente alla convivenza con loro, ciò che può produrre una riduzione graduale non solo delle barriere architettoniche e senso-percettive, ma anche culturali e sociali.

2. Anche se nelle grandi città in alcune scuole c’è la presenza di alunni con disabilità di quartieri relativamente vicini – data la migliore organizzazione della loro accoglienza – sempre più si sta arginando questo fenomeno distorsivo, in ragione del decentramento che impedisce a una Circoscrizione di pagare le spese per il trasporto o l’assistenza ad alunni con disabilità residenti in altre Circoscrizioni.

Alunni attorno a un tavolo con un'insegnante3. Ma le controindicazioni maggiori vengono dai piccoli Comuni, che in Italia sono la stragrande maggioranza. Infatti, per concentrare gli alunni con disabilità solo in alcune migliaia di scuole, occorre sottoporli a lunghi viaggi quotidiani di andata e ritorno a casa, con affaticamento e sradicamento dal loro ambiente di vita. Oltretutto, nel caso di disabilità con una scarsa percentuale sulla popolazione (ciechi, sordi e malattie “rare e orfane”), anche tali viaggi quotidiani sarebbero impossibili e occorrerebbe concentrare tali alunni in istituti residenziali, sia pur sempre con la logica dell’integrazione in classi comuni. Ciò, nella migliore delle ipotesi, li costringerebbe a rimanere fuori sede almeno sino alla fine della settimana. Ma non sarebbe questo uno dei motivi per cui abbiamo chiuso gli istituti speciali, almeno quelli che accoglievano alunni del primo ciclo di istruzione?

Per tutte queste ragioni, quindi, continuo ad essere contrario alle scuole particolarmente attrezzate, tanto più che la concentrazione stabile di mezzi tecnologici e di personale specializzato in certe scuole è ormai superflua. Infatti, i Centri Territoriali per l’Integrazione Scolastica – che coordinano reti di scuole – possono acquistare e distribuire in prestito alle singole scuole appartenenti alla rete sussidi, ausili e attrezzature, di volta in volta che presso l’una o l’altra si iscriva un alunno con disabilità, ai sensi del Regolamento sull’Autonomia Scolastica approvato con il Decreto Interministeriale 44/01.
Quanto al personale, oggi le migliorate condizioni di mobilità urbana ed extraurbana favoriscono lo spostamento dei docenti e degli assistenti da una scuola all’altra, in un ristretto ambito territoriale, come è il Distretto Sociosanitario. In questa logica è pure possibile avere in ogni Distretto Sociosanitario un certo numero di docenti e di personale educativo esperto sulle problematiche didattiche conseguenti alle diverse tipologie di minorazione. L’Intesa Stato-Regioni del 20 marzo 2008 sulla qualità dell’integrazione scolastica ha previsto tutto ciò, anche se il Ministero dell’Istruzione nulla ha ancora attuato. Ciò favorirebbe un efficace utilizzo delle scarse risorse disponibili, evitando però che siano gli alunni a spostarsi per concentrarsi in singole scuole particolarmente attrezzate, mentre sarebbero le risorse tecnologiche e quelle umane a farlo di volta in volta, verso le scuole di quartiere degli alunni con disabilità, le quali sarebbero così attrezzate in modi e tempi variabili.
Un’ipotesi organizzativa, questa, ugualmente efficace, ma assai più rispettosa dell’inclusione effettiva degli alunni con disabilità nel loro normale ambiente di vita, che nulla toglie alle “eccellenze” dei compagni non disabili i quali possono ben realizzarsi, se seguiti da docenti attenti e preparati.

In questi tempi assai pericolosi per l’inclusione scolastica – in cui taluni addirittura auspicano il ritorno alle scuole speciali (o peggio) – la proposta delle scuole particolarmente attrezzate è pericolosa non solo in sé, per quanto già detto, ma per quanto evoca di ritorno al passato che vorremmo fosse definitivamente archiviato.

*Vicepresidente nazionale della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap).

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