Di fronte alla maggiore presa di coscienza dell’utenza nei confronti dell’errore medico – poco importa se addebitabile al medico o alla struttura nella quale egli lavora – si è enormemente sviluppato, negli ultimi decenni, il ricorso alla cosiddetta “medicina difensiva”: il medico, cioè, preoccupato non poco dall’eventualità di commettere un errore e che ciò gli venga contestato con forti richieste di indennizzo (anche di alcuni milioni di euro), ricorre a una pletora di esami di laboratorio e strumentali, talvolta non necessari e non pertinenti. Una questione che, ad esempio, testate specializzate come «Doctor News 33» hanno recentemente trattato, con articoli intitolati significativamente Medici sotto pressione: 8 su 10 temono una denuncia.
Tale pratica del “massimo accertamento strumentale possibile” non sarebbe di per sé errata, se non andasse a infrangersi su due veri scogli: il costo enorme per il Servizio Sanitario Nazionale e le diminuite capacità professionali nel campo della diagnosi.
Nello specifico settore della disabilità grave, si può dire che i problemi spesso si invertano: infatti, si tende magari a prescrivere pochi esami, con la convinzione sottaciuta che difficilmente il paziente potrà protestare. Altra “inversione” del problema – fortunatamente non così frequente – quando qualche medico si “ostina” a pervenire a una diagnosi certa, ricorrendo magari a esami invasivi e rischiosi, anche se poi, nei fatti, il raggiungimento della diagnosi spesso non migliora le possibilità di cura.
Questo naturalmente non significa che le patologie più rare non debbano essere indagate coscienziosamente e che soprattutto nel settore neonatale vadano effettuati prontamente gli atti necessari, anche a costo di reprimende da direttori sanitari, ASL e Regioni.
Un difficile equilibrio, quindi, ma che va ricercato con umanità e professionalità, a tutela della salute e della miglior vita possibile per la persona con disabilità grave.
*Ufficio Stampa Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi).
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