Si chiama Giovanni Mangiacapra ed è un artista interessante e appassionato. Se tornasse indietro avrebbe voluto fare il cuoco o il giardiniere, perché dice che si stufa a stare troppe ore dietro a una scrivania. Una delle cose che ama di più in assoluto è dipingere. I suoi quadri prendono di petto chi li guarda e non gli permettono di andare via subito, lo costringono a fermarsi almeno un poco e lasciarsi penetrare da una visione irruenta ma allo stesso tempo sensibile, intima. Guardare i quadri di Giovanni Mangiacapra significa assistere a un lavoro di ricerca sincero e vivace nelle profondità dell’animo umano in un modo che salta le formalità e arriva dritto al punto. È lo stesso effetto che si ha parlando con lui, conversando della sua arte e della sua vita. Raccontiamo di lui nel nostro sito, perché Mangiacapra è persona focomelica agli arti superiori. Raccontiamo della sua arte perché in lui ci pare che arte e vita coincidano. (Barbara Pianca)
Quando ha iniziato a dipingere?
«Ho iniziato a dipingere, più che altro a scarabocchiare, quando ero ancora ragazzo e abitavo al Centro Don Gnocchi di Parma dove sono rimasto per circa dieci anni, tutte le scuole elementari e medie. Bisogna tenere conto che ho iniziato la scuola molto tardi, avevo già otto, nove anni».
Perché?
«Sono nato a Napoli e a quel tempo, i disabili a scuola non li voleva nessuno. A nove anni non ero ancora in grado né di leggere né di scrivere. La mia era, ed è ancora, una bella famiglia, ma i miei genitori non sapevano cosa fare, a chi rivolgersi».
Questo ritardo ha portato degli scompensi nella sua crescita?
«Non direi. Certo, ho avuto meno occasioni di stare con i miei coetanei. Ero di certo un po’ più protetto degli altri bambini per via della mia disabilità, ma è anche vero che ero uno “scugnizzo”, avevo un caratterino vivace e per niente addomesticabile. Mi sono divertito e ne ho combinate di tutti i colori, come ogni altro bambino».
Il Centro Don Gnocchi le ha permesso di studiare?
«Sì, mi hanno anche permesso di iniziare direttamente con la terza elementare, grazie soprattutto a una maestra trentina bravissima. Inoltre, è stato in quegli anni che ho potuto conoscere la pittura. All’inizio sono stato al Centro di Marina di Massa, poi mi sono trasferito a Parma. È lì che ho scoperto una nuova passione per il disegno di paesaggi. Ero sostenuto dall’insegnante di educazione artistica delle scuole medie, ma la vera occasione è stata che un anno il Centro, carente di un pulmino, decise di organizzare una mostra di disegni di noi bambini da vendere al pubblico per raccogliere i fondi necessari. Feci dei paesaggi con la tempera su cartone pressato ed ebbi un successo enorme, i lavori furono venduti e acquistammo il pulmino. Avevo dodici, forse tredici anni».
Poi cos’è successo?
«Eravamo un bel gruppetto di appassionati pittori, quasi tutti meridionali. Abbiamo continuato a dipingere finché non ho lasciato il Centro, quando ero ormai quasi maggiorenne e avevo terminato gli studi».
Com’è stato tornare a Napoli dopo tutti quegli anni?
«Ho avuto difficoltà serie a inserirmi alla scuola superiore magistrale. Non volevano iscrivermi, erano convinti che siccome sono focomelico agli arti superiori, non fossi in grado di scrivere e tantomeno di gestire la mia persona, andare in bagno autonomamente, eccetera. È una delle cose che mi pesa di più: devo sempre dimostrare agli altri che so fare le cose. È terribile. È un pregiudizio. Gli altri vedono la mia disabilità e concludono che non sono in grado di fare molte cose. Allora, per convincerli, devo dimostrare loro che non è così. Ogni volta. Un paio di anni fa in un’intervista mi fu chiesto di dire quali fossero le cose più difficili della mia vita e io risposi: quelle più semplici e quotidiane. Voglio dire, io non avrei tante difficoltà, la maggior parte delle volte sono gli altri che mi complicano le cose. Ho accettato la mia condizione e sono consapevole dei limiti che essa porta, ma mentre una persona che subisce una mutilazione ha avuto una perdita, io ho un problema congenito. Sono nato così e quindi per me è tutto naturale, il mio corpo è così e non è un problema».
Chi guarda un suo quadro ne apprezza il valore artistico e non sa niente della condizione fisica del pittore.
«Esatto. Non è che avverto prima di come sono. Quando i galleristi o gli acquirenti vedono le mie opere e vogliono conoscermi, non si aspettano di incontrare me. All’inizio sono stupiti. Poi tutti fanno sempre la stessa domanda: “Ma come fa?”. Sembra che sia impossibile che lo possa aver fatto io. È terribile. Chi mi conosce sa che per me è naturale fare un quadro, invece la gente non ci crede. Ogni tanto fantastico un mondo in cui tutti hanno le braccia corte. Quelli strani allora sarebbero quelli con le braccia lunghe. Allora è a loro che la gente chiederebbe: “Ma come ha fatto a dipingere il quadro con quelle braccia così lunghe?”. Come ogni elemento sconosciuto, anche con la disabilità basta prenderci confidenza. Al Don Gnocchi, quando ero ragazzo, con altri amici mettevamo sul letto i compagni, quelli che non potevano camminare e poi facevamo le gare con le loro carrozzine. Per noi le sedie a rotelle erano un gioco, non un simbolo di disabilità».
Fa il pittore di professione?
«No. Sono laureato in Sociologia, ho fatto il comunicatore pubblico, mi sono specializzato in analisi della qualità, ho lavorato in direzione sanitaria in ospedale e ora presso l’URP (Ufficio Relazioni con il Pubblico) dell’ASL 1 di Napoli. Ma in tutto questo tempo non ho mai smesso di dipingere. Ho cominciato con delle mostre nella zona dove abito ed è stato bello perché all’inizio la gente del mio quartiere neanche sapeva che dipingevo, e poi ho iniziato a partecipare a mostre collettive e a frequentare gli ambienti dell’arte. Siccome mi sono specializzato anche in psicoterapia familiare, ho anche proposto l’arteterapia ai minori di un ospedale psichiatrico».
Cosa vuol dire per lei essere artista e cosa esprime con la sua arte?
«Dipingere vuol dire manifestare, esternalizzare la mia persona. L’artista non guarda al passato, ma piuttosto al futuro, vede cose che forse gli altri nemmeno vedono, è in grado di interpretare catastrofi, avvenimenti che devono ancora succedere. Questo perché vive raccogliendo più indizi degli altri, osserva più attentamente la realtà che lo circonda. E poi essere artista significa anche avere uno slancio particolare, una passione talmente forte che mi ha sempre permesso in certi momenti di dimenticarmi del mondo e di avere bisogno solo dei miei colori.
Nei miei quadri una volta usavo il linguaggio figurativo e prediligevo i paesaggi. Poi, andando per musei e mostre, ho capito che per me è più importante rappresentare attraverso il segno non la figura, ma l’emozione. È stato allora che ho cominciato a realizzare quadri dove le forme scomparivano. È un atteggiamento più aderente alla mia vita, che è contro la perfezione e le cose che si riescono a vedere subito».
Come funziona il suo processo creativo?
«Molte volte vedo l’immagine prima ancora di dipingerla e parto da un segno preciso di qualcosa che so già che voglio fare. Allora il quadro inizia con una sorta di strutturazione, un percorso già delineato. Ma poi subentra lo stato d’animo del momento, e allora la condizione iniziale e a volte anche tutta la struttura scompaiono. Molte volte scelgo un colore perché in quel momento mi piace di più e comincio a cercare una forma che ancora non c’è. Poi mi stacco dalla tela e vedo che sta nascendo qualcosa. Allora inisto, cercando di portarlo alla luce, provando e riprovando. A volte si tratta di creazioni spontanee, altre volte costruite. A volte mi capita che non sono più contento di un quadro e non voglio neanche più vederlo. Succede come con le persone, mi arrabbio con i quadri come fossero persone».
Dove dipinge?
«Ho una stanza organizzata tipo studio nel giardino di casa mia, ma dipingo molto anche all’aria aperta in giardino. Mi piace dipingere soprattutto di sera e d’estate dipingo in giardino anche di notte. Vedo passare i i gatti e le lucertole, guardo le stelle sopra la mia testa, e penso a tutti gli altri che stanno dormendo. È più facile concentrarsi di notte, c’è meno confusione».
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