Elisabetta è una graziosa ragazza poco più che trentenne che vive con i genitori a Busto Arsizio (Varese). Affetta da mocroftalmia congenita, riesce appena a intravedere luci, colori e ombre sfuocate. Eppure, grazie all’amorevole supporto della sua famiglia, all’affetto e al sostegno di chi l’ha circondata e alla tecnologia, ha potuto studiare e avere una vita impegnativa, ma ricca di soddisfazioni. Un grazie speciale va al Codice Braille, inventato più di duecento anni fa [a farlo è stato il francese Louis Braille, nato nel 1809 a Coupvray, presso Parigi, celebre appunto per avere inventato l’alfabeto tattile che ne porta il nome, N.d.R.].
La vista è molto importante, si sa. Ma quale vista? Certamente quella dei sensi, che ci consente di apprezzare un tramonto, un’opera d’arte o di immergerci negli occhi della persona amata. Ma si può dire che il buio che sembra circondare le perone non vedenti sia davvero oscurità?
È sempre difficile immaginare ciò che gli altri sperimentano, soprattutto se non si utilizzano i medesimi canali e se si coltiva la presunzione che vi possa essere una sola modalità (la nostra) per conoscere il mondo, noi stessi e per entrare in relazione con gli altri. L’esperienza di Elisabetta mostra come possa essere sorprendentemente ricca ed emozionante anche la vita di una persona con disabilità visiva, se pienamente vissuta nell’impegno quotidiano con intelligenza, coraggio e amore. (M.C.G.)
Elisabetta, come ha inciso la malattia nella tua vita?
«Non posso dire di aver subìto un vero e proprio trauma: infatti, la mia malattia è congenita ed è stata mia mamma che, ad un certo punto, quando ero molto piccola, con estrema spontaneità e in modo semplice, mi ha parlato del mio problema, spiegandomi la situazione.
Neppure a scuola ho avuto grosse difficoltà d’integrazione e devo riconoscere che, in generale, sono sempre stata accolta molto bene. Ricordo che all’asilo avevo una brava maestra che mi stimolava a manipolare con le mani e a disegnare con un oggetto apposito. All’epoca ero anche seguita da una psicomotricista che mi supportava nell’esplorazione e nell’orientamento nello spazio e nella conoscenza del mio corpo».
Quando hai imparato a scrivere e ad utilizzare il Braille?
«Il mio primo incontro con il Braille è avvenuto a sei anni e devo dire che si è trattato quasi di un gioco: infatti, per me era divertente punteggiare il foglio e scoprire che con pochi puntini si potevano ottenere tutte le lettere dell’alfabeto e anche i numeri! Grazie all’entusiasmo, l’ho imparato rapidamente nel giro di due-tre settimane. Tra l’altro, ho avuto la fortuna di poter beneficiare del sostegno di un’eccellente maestra durante tutto il ciclo delle elementari per quattro ore tutti i giorni, dal lunedì al sabato, e i frutti non si sono fatti attendere».
Concretamente, come si fa a scrivere?
«L’apprendimento del Braille è avvenuto nel modo classico, utilizzando una tavoletta di plastica e un foglio di carta girato al contrario sul quale facevo scorrere un regolo provvisto di caselle. Per scrivere, bucavo la carta componendo una lettera all’interno di ciascuna casella; per leggere, invece, dovevo girare il foglio e passare i polpastrelli delle dita sopra la parte in rilievo, costituita dai puntini che avevo fatto in precedenza. Con l’indice sinistro si leggono le lettere e, dunque, le parole, mentre con l’indice destro si anticipa la “lettura” delle parole successive. Il contenuto dei testi scolastici, invece, veniva registrato su audiocassette che ascoltavo. Dato che conservo un lievissimo residuo visivo, ho imparato anche a scrivere con un pennarello, componendo caratteri molto ingranditi. In questo modo potevo svolgere anche semplici operazioni matematiche, ma ciò era molto faticoso».
Direi che anche la scrittura a mano in Braille, però, non doveva essere così “rilassante”…
«Per fortuna, dalla seconda elementare in poi la scuola mi ha messo a disposizione una macchina da scrivere speciale con sei tasti corrispondenti ai puntini e uno per effettuare gli spazi. In questo modo potevo scrivere molto rapidamente, anche grazie al fatto che potevo digitare le lettere come si leggevano (Braille in lettura), mentre la macchina praticava i fori direttamente nella parte posteriore del foglio (Braille in scrittura). Anche se rumorosa, la dattilobraille è stata una vera rivoluzione: che emozione potere stare al passo con i miei compagni durante i dettati e gli esercizi di matematica, leggere le stesse cose che leggevano tutti e rileggere personalmente alla classe i miei compiti!».
In ogni caso, doveva essere impegnativo studiare rispettando i ritmi di tutta la classe…
«Diciamo che ho sempre studiato molto; tuttavia, senza il preziosissimo aiuto di mia mamma, che ha imparato l’alfabeto Braille assieme a me e mi ha sempre aiutata nei compiti, mi sarei certamente scontrata con maggiori difficoltà e ciò soprattutto in seguito».
Hai proseguito, dunque, negli studi?
«Dopo le medie ho frequentato il Liceo Psicopedagogico di Busto Arsizio. Grazie al Comune, ero coadiuvata da due assistenti che, in prevalenza, avevano la funzione di “lettrici”, ma per un monte ore molto scarso e mia madre continuava ad essere davvero insostituibile, registrandomi su cassetta tutte le parti dei vari libri in dotazione che dovevamo studiare».
Nel poco tempo libero cosa facevi?
«Frequentavo la parrocchia e l’oratorio, partecipando anche ad alcune gite organizzate e, pur non essendo propriamente una sportiva, mi ero iscritta a corsi di nuoto di gruppo e praticavo nuoto libero».
Ma non c’è stato un momento in cui ti ha pesato la tua condizione?
«Certamente, con il sopraggiungere dell’adolescenza ho incominciato a sentire il peso della differenza… Per questo rifiutavo anche di utilizzare il bastone bianco, che segnalava in modo inequivocabile il mio handicap. Fortunatamente ero davvero molto ben seguita dai miei che mi accompagnavano a scuola e non mi facevano mancare il loro appoggio in nulla: mi sentivo protetta, dunque, ma non disponevo di grande autonomia».
Non frequentavi gruppi o associazioni?
«L’incontro con l’UIC (Unione Italiana Ciechi) di Varese è avvenuto quando avevo vent’anni. Potrà sembrare bizzarro, ma sino a quel momento, ero “una persona cieca con pregiudizi sui ciechi” e rifiutavo di incontrarli… Presso l’UIC di Varese, invece, mi sono trovata bene: ho stretto amicizia con alcuni ragazzi e ho incominciato a frequentarne alcuni. Così mi sono resa conto che non erano come li avevo immaginati: non erano tristi e noiosi, ma il dialogo che si andava costruendo mi faceva stare bene; mi sentivo a mio agio e inoltre cominciavo a constatare che molti erano ben più autonomi di me».
Poi, cos’hai fatto?
«Grazie anche agli stimoli ricevuti in quel contesto, ho deciso di iscrivermi al Corso di Laurea in Scienze dell’Educazione presso l’Università Cattolica di Milano. Sono stati anni duri, ma molto belli».
Ci credo. Ma immagino anche che, nel frattempo, la tecnologia avesse fatto progressi…
«Per fortuna sì. Già a partire dagli anni del liceo, per studiare (e non solo) ho potuto utilizzare un personal computer dotato sia del programma di sintesi vocale – grazie al quale l’apparecchio può “parlare” e segnalare tutto ciò che accade – che di display braille, ovvero di una specie di “tastiera” speciale provvista di aghi metallici che si possono toccare con le dita e che riproducono in versione Braille tutto quello che una persona vedente leggerebbe sul video. Altro fatto assolutamente rivoluzionario era potere scannerizzare il contenuto dei libri per poi leggerli da sola mediante il computer, anziché chiedere a mia mamma o ad altri di leggerli e registrarli parola per parola su audiocassette.
Infine, dal terzo anno di università in poi, la vita si è ulteriormente semplificata grazie alla possibilità di utilizzare la Braille-lite. Si tratta di un apparecchio simile a una macchina da scrivere, provvisto di otto tasti e di uno spaziatore che consente di scrivere e di rileggere quanto scritto. Essa, infatti, è dotata di una memoria che immagazzina tutti i dati inseriti i quali poi possono essere anche trasferiti e ulteriormente elaborati. In questo modo potevo ascoltare le lezioni dei docenti, prendere appunti e interagire al contempo con tutti i presenti: davvero fantastico!»
Quindi, da ciò che mi dici, il Braille è ancora attuale?
«Oggi vedo che i genitori hanno molte resistenze al riguardo e considerano il Braille uno “strumento del passato”, che “segna” i loro figli come “diversi”, contribuendo alla loro emarginazione e, pertanto, li stimolano ad usare esclusivamente audiolibri e computer con sintesi vocale. L’esperienza diretta mi ha insegnato invece che le nuove tecnologie – per essere davvero efficaci – non possono fare a meno del Braille. Anch’io, ormai da tempo, ho sostituito gli ingombranti volumi in Braille e le audiocassette dapprima con i più pratici floppy disk, poi con i CD, ma sarebbe impossibile “leggerli” se il mio computer non fosse dotato del display Braille… Certo, per apprenderlo si fa un po’ di fatica, soprattutto se si può fare diversamente, disponendo di mezzi che, quando io ero piccola, non esistevano. E tuttavia l’alfabeto Braille è stato creato da una persona cieca per i ciechi: è un codice appositamente pensato per chi ha un tatto molto raffinato perché è abituato a conoscere il mondo in prevalenza attraverso le mani. Il contatto diretto dei polpastrelli con le lettere è qualcosa di affascinante: le parole vengono “lette” direttamente dall’interessato senza alcuna mediazione (come avviene con la sintesi vocale, ad esempio) e il rapporto personale e intimo che si crea con il testo favorisce lo sviluppo dell’immaginazione e dei sentimenti e, al contempo, serve ad imparare a scrivere e a leggere. I ragazzi di oggi, infatti, abituati solo ad ascoltare, rischiano di restare analfabeti…».
Hai fatto conoscenze interessanti nel periodo dell’università?
«Sono entrata in contatto con il GUCI (Gruppo Universitario Ciechi e Ipovedenti) costituito nel 1998. Si tratta di un gruppo di giovani universitari, appunto, con disabilità visiva, che si riunisce periodicamente presso l’Istituto dei Ciechi di Milano per confrontarsi sui problemi (e le opportunità) che gli studenti ciechi o ipovedenti incontrano durante il loro percorso di studi. Grazie a loro, in seguito, ho frequentato un corso di orientamento e mobilità presso lo stesso Istituto dei Ciechi, finalizzato ad accrescere il mio livello di autonomia soprattutto negli spostamenti».
E dopo la laurea?
«Il 5 dicembre 2001 ho conseguito con enorme gioia e soddisfazione la tanto sospirata laurea! Dopo un tirocinio di trecento ore in ambito educativo, sempre presso l’Istituto dei Ciechi, ho discusso infatti una tesi sull’integrazione degli alunni portatori di handicap nella scuola elementare, con particolare riferimento ai servizi in provincia di Varese. In seguito, però, trovare lavoro è stato davvero un problema. Mi sono iscritta al collocamento mirato e ho inviato il mio curriculum a centri che si occupavano di disabili. Nel frattempo, nella completa assenza di risposte, ho frequentato alcuni corsi di specializzazione. Solo parecchi anni dopo si è verificato il “miracolo”…».
Cioè?
«Nel febbraio del 2005, tramite conoscenze, sono entrata in contatto con la Cooperativa Sociale City Service che gestiva i servizi scolastici (mensa, doposcuola ecc.) a Busto Arsizio e zone limitrofe. Ho sottoposto il mio curriculum, sostenuto un colloquio e sono stata assunta per seguire i bambini della scuola elementare di Cassano Magnago nell’ambito del dopo-scuola per tre pomeriggi alla settimana! Nel dicembre dello stesso anno, poi, ho incominciato a svolgere quello che è il mio attuale lavoro nell’ambito del progetto Dialogo nel Buio [se ne legga nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.]».
Di che si tratta?
«Di una mostra-percorso allestita dal dicembre 2005 presso l’Istituto dei Ciechi di Milano. La sua peculiarità risiede nell’assenza totale di luce e nel fatto che i visitatori – a piccoli gruppetti e guidati da persone non vedenti – esplorano i diversi ambienti che riproducono situazioni reali, affidandosi esclusivamente ai sensi del tatto, dell’udito, dell’olfatto e del gusto. Il buio può sconcertare all’inizio, ma poi si trasforma in una preziosa occasione per conoscere la realtà che ci circonda con modalità diverse, con altri canali che abitualmente spesso non si utilizzano e per comprendere come la percezione della realtà e la comunicazione possano essere anche più intense in assenza di luce. L’esperienza dell’uso degli altri sensi crea infatti nella persona la consapevolezza di una maggiore ricchezza e contribuisce, al contempo, ad abbattere le eventuali barriere nei confronti della cecità e delle persone che la vivono nel quotidiano.
Oltre al percorso, vengono organizzate poi ulteriori attività, quali il Cafénoir, la cena al buio, il teatro al buio, laboratori didattici per ragazzi, percorsi formativi per aziende. Per chiunque sia interessato, il sito web offre la possibilità di raccogliere maggiori informazioni».
Qual è ora il tuo sogno nel cassetto?
«A marzo dell’anno scorso mi sono fidanzata con Paolo, un ragazzo di Parabiago conosciuto grazie a comuni amicizie; è stato tutto molto rapido: siamo usciti un pomeriggio insieme e non ci siamo più lasciati. Certamente, mi piacerebbe in futuro avere una famiglia tutta mia».
Di strada ne hai fatta parecchia, mi sembra.
«La vita è come un viaggio e ogni persona porta con sé uno zaino con tutto ciò che può servirle durante il cammino. Nello zaino di ciascuno, però, ci sono cose diverse e nel mio, sin dalla nascita, è mancato qualcosa di molto importante: il senso della vista. Si tratta certamente di un limite notevole, soprattutto nella nostra società basata sempre di più sull’immagine. E tuttavia, durante il mio percorso, ho scoperto che il mio zaino è altrettanto pieno di doni che mi hanno permesso di raggiungere i risultati più significativi della mia esistenza: gli altri sensi, la mia famiglia, i miei insegnanti, i miei amici e compagni e la fede religiosa che mi ha sostenuta nei momenti più difficili. D’altro canto, il mio obiettivo è sempre stato chiaro: svolgere un lavoro che mi permettesse di stare a contatto con la gente e di sentirmi utile e oggi, sotto questo profilo, posso dire di avercela fatta! La mia esperienza mi ha fatto comprendere come, davvero, “i sentieri si formano camminando”… Noi vorremmo sempre percorrere strade comode e piane, ma a volte la vita ci chiede di prendere direzioni che non avevamo previsto, di iniziare qualche impresa che non rientra nei nostri programmi e per la quale, spesso, ci sentiamo inadeguati. Tuttavia, è solo affrontando con coraggio e determinazione queste “nuove strade” che è possibile scoprire e mettere a frutto le nostre potenzialità!».
*Intervista realizzata con il titolo Elisabetta e lo zaino pieno di doni nel n. 67 (ottobre-dicembre 2010) della rivista «Lisdha News» e riproposta, con lievi adattamenti, nel sito del Gruppo Donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo Elisabetta: oltre l’oscurità con il Braille. L’abbiamo ripresa a nostra volta, per gentile concessione.
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