La Convenzione sui Diritti delle persone con disabilità, approvata dall’ONU nel dicembre del 2006, sottoscritta dall’Italia nel marzo del 2007 e ratificata dal nostro Parlamento con la Legge 18/09, rappresenta senz’altro un’eccellente opportunità culturale e politica per dare nuovo impulso all’inclusione sociale di tutte le persone con disabilità, favorendone l’autonomia e l’indipendenza.
Una spinta vigorosa, dunque, per l’affermazione di diritti comuni a tutti gli uomini, piuttosto che a pochi appartenenti a categorie sociali speciali o a comunità caratterizzate da una determinata tipologia di disabilità, ma anche – poiché la Convenzione fornisce una visione d’insieme della problematica – uno strumento giuridico di notevole respiro e garanzia che ha immediatamente catturato l’interesse delle persone con disabilità uditiva, tra le quali si è riaccesa la speranza di poter colmare grazie ad essa le molte lacune derivate proprio dalla mancata creazione ed erogazione di quei servizi indispensabili a perseguire gli obiettivi della Convenzione stessa.
Infatti, nonostante la legislazione italiana sia tra le più avanzate, esistono sul territorio nazionale vaste aree in cui le persone con disabilità uditiva e le loro famiglie soffrono per la mancanza o la carenza di servizi adeguati, talvolta per scarsa sensibilizzazione dell’opinione pubblica, ma anche a causa di un debole approccio solidaristico e di comportamenti culturalmente poco evoluti.
Ora, con l’adozione della Convenzione ONU, si supera definitivamente il criterio di stigmatizzazione del solo deficit della persona con disabilità e se ne promuove un nuovo modello sociale (articolo 1, Scopo, punto 2), che individua come «barriere di diversa natura poss[a]no ostacolare la loro [delle persone con disabilità] piena ed effettiva partecipazione nella società su base di uguaglianza con gli altri», stabilendo anche un vincolo, un obbligo per gli Stati Parti verso l’adozione di misure e provvedimenti necessari a un’effettiva inclusione delle stesse persone con disabilità.
Se da un lato, dunque, si rileva l’importanza di eliminare le barriere di varia natura – da quelle della comunicazione a quelle culturali e oltre – dall’altro si evidenzia e si esplicita la funzione facilitatrice che deve svolgere il contesto ambientale, sociale e culturale, in un’ottica di valorizzazione delle aspettative, capacità e caratteristiche individuali.
Ne consegue che anche le persone sorde e le loro famiglie riconoscono l’importanza della ratifica della Convenzione ONU da parte del nostro Paese, proprio per le conseguenze giuridiche e normative che ne derivano, a cominciare dall’esigenza di monitorare gli obiettivi perseguiti e raggiunti e comunque valutati “in funzione dell’interazione tra ambiente e persone sorde”, secondo la logica della Classificazione ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, definita nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità), che mette al centro di ogni analisi proprio quei fondamentali riferimenti biopsicosociali.
Accade tuttavia che in molti Paesi, tra cui l’Italia, numerose persone sorde, le relative famiglie e gli organismi associativi non abbiano della Convenzione – per i riferimenti espliciti alla sordità – una visione univoca e condivisa, dato che in essa sono contenuti princìpi e concetti che non possono avere la stessa valenza, una volta calati in realtà di Stati con contesti storici, culturali e ambientali molto differenti.
Invero, il riconoscimento di specifiche identità culturali e linguistiche, quali la comunità e la cultura sorde, non rappresenta per la maggioranza delle persone sorde un’effettiva conquista di diritti e una reale garanzia di autonomia e autodeterminazione. È un incontrovertibile dato di fatto che nella realtà italiana – da oltre trent’anni – i bambini sordi, salvo rare eccezioni, vivano nelle famiglie di appartenenza e che gli alunni sordi frequentino la scuola di tutti e non gli istituti o le scuole speciali, come accade in altre parti del mondo, compresi alcuni Paesi europei. Ciò in aperto contrasto con il secondo comma dell’articolo 24 della Convenzione (Educazione), che garantisce invece il «diritto all’istruzione gratuita» e alle buone prassi per un’integrazione «di qualità libera» e «su base di uguaglianza con gli altri», come viene anche lamentato da molte associazioni di persone con disabilità.
Particolarmente un movimento associativo inglese, l’United Nations Convention Campaign Coalition (UNCCC), che rappresenta ben trentatré organizzazioni che si occupano di disabilità in tutto il Regno Unito (disability organisations), reclama vigorosamente che il Governo britannico ritiri la Riserva alla Convenzione proprio a proposito dell’educazione, auspicando che anche in Gran Bretagna ci si orienti quanto prima verso il sistema scolastico italiano, dove – si segnala con forza – le scuole speciali sono state appunto superate da oltre trent’anni [delle Riserve sulla Convenzione espresse dalla Gran Bretagna, si legga anche nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.].
Proprio in funzione di ciò, molte persone sorde italiane e le loro famiglie – piuttosto che lasciarsi affascinare da articoli che, con facili entusiasmi, esaltano comunità e culture diverse da quelle proprie della cultura comune a tutti – sostanzialmente ribadiscono il contenuto dell’articolo 4 della Convenzione (Obblighi generali), che al punto 4 recita: «Nessuna disposizione della presente Convenzione può pregiudicare provvedimenti più favorevoli per la realizzazione dei diritti delle persone con disabilità, contenuti nella legislazione di uno Stato Parte o nella legislazione internazionale in vigore in quello Stato. Non sono ammesse restrizioni o deroghe ai diritti umani ed alle libertà fondamentali riconosciuti o esistenti in ogni Stato Parte alla presente Convenzione in virtù di leggi, convenzioni, regolamenti o consuetudini, con il pretesto che la presente Convenzione non riconosca tali diritti o libertà o che li riconosca in minor misura».
In questo contesto assume poi particolare considerazione l’articolo 7 (Minori con disabilità), che al comma 2 recita: «In tutte le azioni concernenti i minori con disabilità, il superiore interesse del minore costituisce la considerazione preminente».
Nel caso della disabilità uditiva, il rischio di handicap è strettamente legato al momento di insorgenza della sordità, oltre che naturalmente al suo grado. I bambini nati sordi o divenuti tali nei primi anni di vita e comunque con sordità classificata di grado grave o profonda, e che solo nel 5% dei casi hanno entrambi i genitori sordi, non acquisiscono spontaneamente il linguaggio, con tutte le conseguenze che potrebbero derivarne a danno dello sviluppo linguistico, relazionale e cognitivo. Le famiglie sono quindi obbligate a compiere scelte importanti sul futuro dei propri figli, nella consapevolezza che proprio da queste deriverà la loro qualità di vita e di inclusione sociale, perseguendo quello che, nella fattispecie, esse ritengono il «superiore interesse» del minore nato sordo o diventato tale nei primissimi anni di vita.
Un interesse identificato attraverso una forte assunzione di responsabilità e mirato alla costruzione di un progetto di vita, che tenga conto della specificità e personalità del figlio e che soprattutto sia in grado di corrispondere al naturale bisogno dell’uomo di essere sociale, di poter comunicare liberamente con le altre persone, di poter interagire più facilmente a scuola, a lavoro, nella società, entrare a pieno titolo nella storia e nella cultura dell’umanità e del proprio Paese. La lingua verbale – nella forma scritta e orale – è l’indispensabile strumento per raggiungere l’obiettivo.
Ci sono tuttavia situazioni in cui la possibilità di comunicare passa necessariamente attraverso l’impiego della comunicazione non verbale e anche del Linguaggio Segnico. Ed è pur vero che in alcuni Paesi le persone sorde vivono – per scelta o per necessità, come accadeva una volta anche in Italia – in ambienti e luoghi istituzionali separati, come ad esempio le scuole speciali, in cui effettivamente si afferma il concetto di comunità.
Proprio in ragione di ciò, la Convenzione ONU fa riferimento in diversi articoli anche ai diritti delle persone sorde, specialmente adulte, che rivendicano l’appartenenza a una comunità in quanto minoranza con una propria lingua e una propria cultura: “la cultura sorda della comunità sorda”.
Fondamentalmente la Convenzione garantisce le professioni di aiuto per l’accessibilità (articolo 9), promuove il riconoscimento e l’uso della Lingua dei Segni, al fine di garantire la libertà di espressione e opinione ed accesso all’informazione (articolo 21), l’educazione (articolo 24) e infine la partecipazione alla vita culturale e ricreativa, agli svaghi e allo sport (articolo 30).
Evidentemente l’identificazione di questa comunità passa attraverso l’uso del Linguaggio dei Segni, il cui apprendimento si può realizzare proprio con una frequentazione continua e assidua di altre persone che lo utilizzano e che pertanto costituiscono di fatto una comunità in un ambiente generalmente diverso dall’abituale tessuto sociale, che tra l’altro – per quanti vivono in piccoli centri – è molto improbabile creare, vista la bassa incidenza e la forte dispersione sul territorio nazionale della popolazione con sordità.
Inoltre, quando poi si utilizza il Linguaggio dei Segni in contesti esterni alla cosiddetta comunità, la comunicazione avviene solo attraverso l’impiego di interpreti locali, che se da un lato consentono il godimento di alcuni diritti, consolidano, al contempo, una situazione di assoluta dipendenza per le persone sorde.
Infine, le comunità sorde – seppure esistono – non possono comunicare tra di loro perché le Lingue Nazionali dei Segni sono diverse e si presentano con notevoli varianti regionali o territoriali, per cui la presunta comunità spesso ha prevalenza localistica.
L’uso della lingua verbale ha invece sempre garantito in Italia l’autonomia e l’indipendenza delle persone sorde, attraverso un processo un tempo lungo e faticoso, attualmente facilitato da metodologie e tecniche di logopedia molto evolute e strutturate, benché purtroppo per esse persista il problema della mancata omogenea diffusione in molte aree del Paese.
Inoltre, le nuove tecnologie protesiche, applicate all’impianto cocleare e agli apparecchi acustici, analogici e digitali di “top level”, consentono oggi a molti – anche con sordità grave o profonda – un buon recupero della capacità percettiva uditiva, raggiungendo talvolta livelli eccellenti.
Con questi presupposti e partendo dall’esposizione del bambino al “bagno sonoro” di cui necessita, gli si può costruire intorno un ambiente pieno di contenuti esperienziali e comunicativi che arricchiscono significativamente le sue relazioni interpersonali. Di forte valenza sono anche le tecnologie per la comunicazioni che consentono, fra l’altro – attraverso le tecniche di sottotitolazione – l’accesso all’informazione, all’istruzione, alla cultura, al tempo libero, in altri termini alla vita collettiva.
Oggi, ancor più di ieri, è possibile per un bambino sordo preverbale acquisire la lingua in tempi e modi paragonabili al coetaneo udente. Questo percorso può compiersi in tutta naturalezza, solo a condizione di applicare un severo protocollo, che passi dalla diagnosi precocissima a un adeguato intervento abilitativo protesico/logopedico, intervento che trova la sua stessa ragion d’essere nell’articolo 25 della Convenzione (Salute), ove il punto (b) vincola gli Stati Parti a «fornire alle persone con disabilità i servizi sanitari di cui hanno necessità proprio in ragione della loro disabilità, compresi i servizi di diagnosi precoce e di intervento d’urgenza, e i servizi destinati a ridurre al minimo ed a prevenire ulteriori disabilità, segnatamente tra i minori e gli anziani».
Si tratta di un diritto alla salute ribadito dal successivo articolo 26 (Abilitazione e riabilitazione), ove il punto 1 testualmente prescrive che «A questo scopo, gli Stati Parti organizzano, rafforzano e sviluppano servizi e programmi complessivi per l’abilitazione e la riabilitazione, in particolare nei settori della sanità, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sociali, in modo che questi servizi e programmi: (a) abbiano inizio nelle fasi più precoci possibili e siano basati su una valutazione mutlidisciplinare dei bisogni e delle abilità di ciascuno».
La realizzazione di quanto previsto dalla Convenzione sarebbe dunque la migliore garanzia per monitorare e implementare su tutto il territorio nazionale l’effettiva realizzazione di un programma di fornitura generalizzata e capillare dei servizi di diagnostica precoce di sordità e della successiva attivazione dei servizi complessivi per l’abilitazione e la riabilitazione. Avviando quindi quel progetto di vita personalizzato, capace di mettere ogni bambino sordo nelle migliori condizioni per acquisire con naturalezza una competenza linguistica adeguata e sufficiente a realizzare un’agevole inclusione scolastica prima e lavorativa dopo.
È inoltre evidente come oggi non solo l’uso delle tecnologie avanzate, ma anche degli accorgimenti procedurali e comportamentali, degli ausili e della progettazione universale, possano realmente abbattere le barriere della comunicazione e culturali, favorendo l’accessibilità e la fruibilità dei vari diritti umani. Basti pensare all’impiego dei sottotitoli (anche in tempo reale) in televisione – digitale e analogica – sul web, a teatro, nei convegni, nelle aule universitarie, nei musei, nei luoghi della cultura, dell’arte, dello svago e del tempo libero, oltre che all’impiego di segnaletica e di pannelli elettronici in luoghi pubblici o alla cura dell’acustica ambientale per favorire e facilitare l’ascolto.
È fondamentale, pertanto, che lo strumento della Convenzione sia realmente utilizzato in Italia, garantendo i diritti umani e civili anche alle persone sorde e non creando discriminazioni.
Vale la pena sottolineare infine che se ci sono persone sorde che rivendicano il diritto di appartenenza alla comunità e cultura sorda, è pur certo che ci sono altrettante persone che rivendicano di non riconoscersi in nessun’altra comunità che non sia quella civile e democratica, cui appartengono tutti i Cittadini della Repubblica italiana e che più opportunamente ribadiscono il loro diritto a vivere in una società libera e aperta a tutti, inclusiva. Ciò non perché, come qualcuno potrebbe insinuare, non accettino la propria condizione, ma perché non concepiscono l’identificazione in una comunità culturale e linguistica, fondata su una disabilità, tantomeno se imposta per legge.
Pertanto le persone sorde e le loro famiglie attendono che il contenuto della Convenzione ONU, i suoi princìpi, gli obblighi generali, la sua ratio, divengano patrimonio condiviso nel Paese dai Cittadini e dalle Istituzioni e che venga infine dato l’avvio, attraverso la prevista apposita struttura, all’azione di monitoraggio e coordinamento nazionale previsto dall’articolo 33 del Trattato.
*Presidente nazionale della FIADDA (Famiglie Italiane Associate per la Difesa dei Diritti degli Audiolesi).
Articoli Correlati
- Una buona cooperazione allo sviluppo fa bene a tutte le persone con disabilità «Se con i progetti di cooperazione internazionale allo sviluppo - scrive Giampiero Griffo, concludendo la sua ampia analisi sulle azioni in questo settore - verrà rafforzata la voce delle persone…
- Il Disegno di Legge Zan e la disabilità: opinioni a confronto Riceviamo un testo dal sito «Progetto Autismo», a firma di Monica Boccardi e Paolo Cilia, che si riferisce, con toni critici, a un contributo da noi pubblicato, contenente due opinioni…
- Dopo di noi da creare “durante noi“* L'organizzazione del futuro di una persona con disabilità: quali sono le tutele giuridiche esistenti? In quali ambienti si potrà svolgere la vita di quella persona? E con quali fondi? Un…