Con le ruote per terra ha vinto il Festival di Avezzano dedicato al cinema dell’handicap e dei diritti umani. Il film racconta la storia della partecipazione della Nazionale di basket in carrozzina under 22 ai Campionati Europei del 2010 [23-39 luglio 2010, Seveso, Milano, N.d.R.]. Il titolo trae origine dall’espressione usata da uno dei componenti della squadra, e corrisponde alla metafora di solito usata, «restare con i piedi per terra», come è possibile constatare dal trailer del film visibile su Youtube.
L’opera, prodotta dagli autori con la collaborazione della Briantea84 di Cantù (Como) – la società sportiva specializzata nello sport per disabili che organizzava gli Europei – ha già vinto numerosi premi nei festival ed è stata fra quelle selezionate per la scelta delle cinquine del David di Donatello di quest’anno.
Gli autori di Con le ruote per terra sono Andrea Boretti e Carlo Prevosti il quale ultimo ha risposto ad alcune nostre domande sul film e sul genere di cinema da lui prediletto. (Alfredo Radiconcini)
Come è nata l’idea della realizzazione di Con le ruote per terra?
«Abbiamo incontrato per la prima volta Alfredo Marson [della Briantea84, N.d.R.] durante la presentazione del Festival del Cinema Sportivo del 2009 a Milano. In quell’occasione ha presentato ai giornalisti i campionati di basket in carrozzina che si sarebbero svolti in luglio a Seveso. Lì mi è nata l’idea di contattare la Federazione Nazionale Paralimpica per chiedere se era possibile affiancarsi alla Nazionale e seguire il processo di allenamento per avvicinarsi agli europei.
Da ex giocatore di basket ho contattato il mio collega e amico Andrea Boretti, anche lui appassionato di documentari e giocatore di pallacanestro; insieme abbiamo cominciato questo avvicinamento alla Briantea84 e poi alla squadra, ed è partito il progetto. Una volta ingranato, abbiamo avuto il supporto di alcuni amici che hanno visitato il set, si sono innamorati dei ragazzi della squadra e dell’evento e ci hanno dato una mano fino alla fine.
In totale il gruppo che ha lavorato al film è di sette persone, includendo anche chi ci ha aiutato per la parte video e per le musiche. Si è trattato in sostanza di un lavoro volontario perché, non avendo una commissione alla base, tutto è stato fatto per passione e per la voglia di raccontare questa storia, e non per un fatto meramente lavorativo».
Lei ha codiretto il film assieme ad Andrea Boretti: qual è stata la divisione dei compiti nella realizzazione?
«Il lavoro è firmato da entrambi come autori. La sceneggiatura è stata scritta da entrambi a quattro mani. Lui si è occupato della parte registica, quindi è accreditato come regista del film, io ho scritto il soggetto. Per la parte video sono accreditati Stefano Zoja e Riccardo Buloni, che sono due nostri amici e che sono diventati gli operatori. Ci siamo messi in gioco tutti per fare questo lavoro – la camera è stata in mano a tutti – però la parte registica dal punto di vista tecnico è stata fatta da Andrea».
Ci sono delle proiezioni programmate? Cosa deve fare chi vuole vedere il film?
«Lo stiamo distribuendo il più possibile nel circuito dei Festival. Quello di Avezzano era relativamente piccolo, ma su una tematica importante. Per ora non abbiamo la possibilità di mettere dei DVD in vendita. Abbiamo in programma una proiezione a Seveso; avremo una proiezione probabilmente in questo periodo di Pasqua a Taranto, organizzata da una squadra di basket di serie A, quella dove è nato e cresciuto Dodò, uno dei protagonisti del film. Per ora questo… Poi, grazie alla vittoria ad Avezzano, andremo a Buenos Aires a presentarlo. Se qualcuno fosse interessato ci può contattare tramite la pagina di Facebook del film».
Lei è un giovane filmmaker che segue il circuito dei Festival. Ci può dire dal suo punto di vista quali sono i problemi generali nella realizzazione e nella distribuzione di questo genere di film?
«Le difficoltà, prescindendo dalle competenze tecniche necessarie, sono legate principalmente al fatto che c’è bisogno di un sacco di tempo. Il film è costato molto poco: i trasporti da Milano a Seveso non creavano troppi problemi, le attrezzature erano già a nostra disposizione… ma se noi avessimo dovuto fatturare le ore come lo faremmo nel nostro lavoro di free lance i costi sarebbero lievitati moltissimo».
Si è trattato di un sacrificio, di un investimento personale…
«In un certo senso sì. Se ci credi ti ci butti dentro a testa bassa, e devo dire che i risultati, i riscontri che abbiamo avuto in un certo senso ci ripagano emotivamente di quello che abbiamo passato nell’estate scorsa. Andrea aveva il vantaggio di avere un lavoro part-time e poteva dedicare del tempo a questa cosa; a me paradossalmente è “andata bene” perché mi era appena scaduto un contratto di lavoro a fine giugno e non me lo hanno rinnovato per una questione di riduzione del personale; quindi a luglio ho avuto tutto il tempo che volevo».
Il film è stato anche selezionato per il David…
«Ci ha fatto molto piacere rientrare nella selezione delle opere candidabili al David di Donatello, non ce lo saremmo mai aspettati. Ma in occasione della prima del film a Milano quando abbiamo visto la reazione che hanno avuto gli stessi ragazzi, commossi e felici di vedere questo film, e quella di tutta la gente che c’era dietro: chi ha organizzato, chi è venuto per amicizia e anche le persone che sono venute per la curiosità di vedere il film… già lì la soddisfazione di aver fatto qualcosa di buono c’era. Quel che è venuto dopo mi ha fatto piacere, ma quei dieci minuti sono stati il miglior compenso che potesse arrivarci».
Lei cura, fra l’altro, il blog Mockumentary, nel quale si tratta il tema del confine fra il vero e il falso nel cinema e in particolare nel documentario.
«L’attenzione per questi temi nasce all’università. Io ho sempre avuto interesse per i documentari, anche se ho iniziato a realizzarli soltanto adesso per una questione di storie di raccontare e di capacità di farlo. All’università mi è capitato di scoprire alcuni film di questo genere, che utilizzano il linguaggio del documentario (che di norma racconta una storia vera) per raccontare una storia di fiction. Esiste una filmografia molto vasta che però in Italia è poco conosciuta. Il blog nasce come prosecuzione naturale del lavoro fatto con la mia tesi di laurea. È un tema che non è stato studiato molto, anche se al cinema è stato utilizzato parecchio».
Il suo rapporto con questa impostazione ha influenzato Con le ruote per terra?
«Mi è capitato di analizzare e di studiare questo fenomeno dei falsi documentari, ma il mio interesse è quello di fare dei documentari che raccontano la realtà. Come è evidente sia in Con le ruote per terra che nell’altro film che ho fatto quest’estate, il quale racconta le storie di persone che scelgono di abbandonare la città per andare a vivere in montagna».
Non si tratta di un film dedicato allo sport…
«Racconta un modo diverso di vivere la montagna: né turistico né di isolamento; contiene quattro storie molto diverse, ma che hanno in comune un senso di progettualità. Persone che hanno vissuto in città un certo periodo della loro vita e poi hanno avuto bisogno di altro per ritrovare se stessi e hanno scelto di andare a vivere chi in malga, chi in una casa nel bosco… però nessuno con un approccio del tipo “la ragazza mi ha mollato”, oppure “ho perso il lavoro e vado a fare l’eremita in montagna”. Il film si chiama Sentire il mio passo sul sentiero, e anche questo è a quattro mani con un regista che si chiama Jacopo Santambrogio: lo presenteremo al Festival del Cinema di Montagna a maggio [Trento, 28 aprile-8 maggio 2011, N.d.R.]».
Come valuta l’impatto della televisione nella nostra percezione della realtà? E si può dire che il tipo di cinema da lei auspicato sia una sorta di inversione del genere reality ora dominante, per opporsi alla sua volgarità?
«Necessariamente abbiamo attraverso i mass media una visione della realtà. In Italia questo uso è funzionale a una certa classe politica o dirigente che non tanto ti racconta cose che non sono vere, ma piuttosto presenta una determinata parte della realtà, una prospettiva che rischia di essere al limite della manipolazione.
Il concetto dei falsi documentari è dal mio punto di vista quasi un esercizio che un regista fa nei confronti dello spettatore per dirgli: guarda che quello che ti sto facendo vedere, il linguaggio che utilizzo, ti sta dicendo che stai vedendo una cosa vera, ma tu non prendere questo dato di fatto come assoluto. Se come spettatore accetto la rappresentazione della realtà che mi viene data da un documentario o da un servizio di telegiornale soltanto perché fa parte di un canone specifico, non esercito una facoltà di riflessione critica. Un tempo si usava l’espressione “l’hanno detto in televisione”, per affermare la veridicità di un’informazione. È importante chiedersi se quello che hanno detto in televisione, alla radio, al cinema o in un giornale effettivamente sia vero oppure no».
*Intervista già apparsa nel portale «Beni culturali per tutti» e qui ripresa per gentile concessione.
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