Mangiatore di fuoco, giocoliere, faccia incipriata, naso rosso, palloncini intrecciati e giochi di prestigio… il perfetto clown! Tarek è speciale però, è un clown su una sedia a rotelle.
Non stupiamoci. In un’epoca nella quale le persone con disabilità svolgono una moltitudine di attività lavorative, sono presenti nella politica, nello sport, nello spettacolo, non deve meravigliare che Ibrahim Tarek eserciti la sua professione e la sua passione sulle ruote di una carrozzina. Abbiamo parlato con lui e ci siamo fatti raccontare quando è nato questo amore per l’intrattenimento, per far passare delle ore liete, per fare sorridere. (Dorotea Maria Guida)
Tarek ci racconti qualcosa di te? Della tua famiglia?
«Sono Tarek Ibrahim Fouad Ibrahim e il mio nome è così lungo perché mio padre è egiziano, mentre la mia mamma è italiana. Ho 28 anni e non ho mai camminato; quando dovevo venire al mondo, a mia madre, al settimo mese di gravidanza, riscontrarono la toxoplasmosi. Le dissero che sarei stato protetto dalla placenta e che non mi sarebbe successo nulla. Invece qualcosa andò storto. Io nacqui dopo due giorni che mia madre aveva rotto le acque. “Parto asciutto”, dissero i medici. La mia disabilità fu riscontrata quando avevo nove mesi. Non andavo carponi e non riuscivo a star ben seduto: cadevo. I medici diagnosticarono diplegia spastica neonatale, ossia i tendini dei muscoli delle gambe non si allungavano con la crescita. Da lì cominciò il mio calvario: una lunga serie di interventi per allungare i tendini. In ventotto anni sono stato sottoposto a quindici interventi chirurgici per allungarli (il primo a 10 mesi di vita, l’ultimo a 18 anni e ho fatto 22 anni di riabilitazione). Tutto questo è una prassi comune per coloro che soffrono del mio stesso problema.
La mia infanzia è stata magnifica, in quanto mia madre Mariangela e i nonni Giuseppe e Maria (mancata da poco) mi hanno sempre messo a disposizione tutto quello che mi era necessario per affrontare la vita in modo normale. Per certi versi è stata dura. Vedevo gli altri camminare, correre, giocare a pallone, ma non mi sono mai lasciato trascinare dalla tristezza o dallo sconforto. Ho sempre saputo trovare la forza necessaria, spirito sbarazzino e allegria hanno fatto il resto.
Mi sono sempre divertivo come tutti. Mia madre, poi, non mi ha mai tenuto in una “campana di vetro” per proteggermi da tutto. Ho imparato sulla mia pelle quanto può essere difficile la vita con le mie limitazioni e tutti mi hanno sempre rispettato e considerato in modo paritario».
Quand’è nata la passione per l’intrattenimento? Dove hai imparato a fare il clown?
«Tutto è successo quattro anni fa, per gioco direi. Don Cristoforo, il parroco del mio paese [Villongo, in provincia di Bergamo, N.d.R.], aveva organizzato un corso con un artista di strada e io provai con lui a colorare la mia faccia, realizzare Balloon ecc. Un giorno si doveva preparare una festa per beneficenza e chiamarono me per fare il clown. Quel giorno mi sono divertito tantissimo, oltre a far divertire i tanti bambini presenti».
Le persone ti contattano volentieri per i tuoi spettacoli o ci sono ancora dei pregiudizi?
«Da quella prima festa di beneficenza ho sempre continuato ad intrattenere le persone; è curioso osservare la gente che all’inizio sembra vedere solo la mia carrozzina, poi, quando la mia faccia incipriata si contorce in mille espressioni divertenti o i palloncini cominciano a prendere forma, la gente vede solo il clown che fa ridere e divertire.
Il momento più entusiasmante del mio spettacolo è quando, a torso nudo, passo sul mio corpo un’asta infuocata oppure quando eseguo il numero del mangiatore di fiamme. Le persone si divertono tantissimo! Vedere la gente ridere mi riempie dentro e mi dà una grinta inimmaginabile, difficile da spiegare, bisognerebbe viverla».
Dove svolgi la tua attività? Sei inserito in una compagnia itinerante, tipo circo? Oppure?
«Adesso lavoro da solo, qualche volta mi aiuta mia moglie, ma spesso sono solo. All’inizio mi accompagnava un ragazzo normodotato, avevamo un’intesa perfetta durante gli spettacoli. Poi abbiamo deciso di separaci e di continuare da soli».
Ci sono altri esempi di clown disabili in Italia?
«C’è un altro clown in carrozzina, si chiama Maurizio ed è un mio amico. Lui preferisce intrattenere i malati negli ospedali. Anche a me piacerebbe far sorridere i degenti in ospedale e infatti, il mese prossimo, farò la selezione per fare il clown in corsia».
C’è qualcuno che vorresti ringraziare per quello che sei riuscito a realizzare finora?
«Nella mia adolescenza ci sono state due persone molto importanti: Francesco e Sandro. Il primo ha significato molto per me, è stato un padre, un amico, un fratello, un allenatore quando praticavo l’handbike da professionista; purtroppo è mancato da qualche anno. Poi a vent’anni ho incontrato la persona che ha cambiato radicalmente la mia vita: Patrizia, mia moglie. Abbiamo convissuto per tre anni e siamo sposati da cinque. Patrizia mi ha accolto nella sua vita vedendo in me, sin dal primo giorno, l’uomo e non la persona seduta in carrozzina. Penso che tutti noi siamo incompleti e siamo alla ricerca della metà che ci completi, quella che tutti chiamano l’anima gemella. Ebbene, mia moglie è colei che mi completa, la mia perfetta metà».
Il tuo motto, Tarek?
«Vivere la vita che è unica, magnifica, cercando di goderla in ogni attimo. Poiché ogni attimo che passa non torna mai indietro. Cercare di lasciare sempre l’impronta del nostro passaggio affinché le generazioni future ricordino che siamo esistiti e che abbiamo dato un contributo positivo agli altri. Grazie per l’opportunità che mi avete dato di raccontarmi!».
*Servizio realizzato per conto dell’Associazione Prodigio di Trento (con il titolo Tarek un clown a rotelle), qui ripreso, con alcuni riadattamenti, per gentile concessione.