Laura Boerci è un’artista milanese: scrive opere di teatro e narrativa, dipinge, decora e ora sta imparando anche a recitare. Ha un’amiotrofia spinale che le immobilizza il corpo. Filippo Visentin è uno storico e un musicista non vedente dalla nascita.
Il libro che hanno scritto a quattro mani, I colori del buio, storia d’amore tra una contadinella e un pianista cieco ambientata nel secondo dopoguerra, è soprattutto la storia della loro bellissima amicizia. Abbiamo intervistato Laura, assessore all’Accessibilità e al Tempo Libero del suo Comune (Zibido San Giacomo, in provincia di Milano), per farci raccontare il delicato e forte incontro tra due personalità creative, la sua e quella di Filippo. Ne abbiamo ricavato un messaggio universale, e cioè che l’espressione artistica rende libero chiunque, a prescindere dal contesto ambientale, psicologico o fisico che sia. A patto però di buttarcisi fino in fondo. (Barbara Pianca)
Come ha incontrato Filippo?
«A un convegno a Ferrara conobbi il suo migliore amico che mi parlò di lui. Mi raccontò che Filippo è un pianista e gli dissi di invitarlo a suonare il pianoforte per un evento che stavo organizzando. Filippo venne e ci conoscemmo. Era il novembre del 2007 e da allora siamo diventati grandi amici».
Ci parla di questa amicizia?
«Il nostro rapporto si basa sul dialogo. Abitiamo distanti, io in provincia di Milano e lui a Padova, e ci vediamo circa una volta al mese. Parliamo al telefono anche un’ora al giorno. Da quando ci conosciamo, è successo che non ci siamo sentiti solo in due occasioni, una volta che c’era stata un’incomprensione e un’altra perché ero in crociera in alto mare».
Di che cosa parlate?
«Di tutto. Arte, disabilità, cultura. Filippo è laureato in Storia ed è un grande lettore. Il nostro è un confronto diretto, leale. E poi scherziamo, ridiamo molto, e ci siamo sempre l’uno per l’altra».
Come e quando è nata l’idea di scrivere un libro a quattro mani?
«Fin da subito abbiamo fatto delle cose insieme, eventi culturali e di spettacolo. E poi a tutti e due piace scrivere. Prima di iniziare I colori del buio io avevo già scritto un libro, L’aura di tutti i giorni, e lui un saggio».
Come avete lavorato?
Soprattutto a distanza, tramite internet. Siamo partiti dalla scaletta, che abbiamo buttato giù insieme. Poi ho cominciato a scrivere e gli ho mandato un testo che ha corretto e abbiamo continuato a rimbalzarcelo. Alcune parti le ha scritte solo lui, quelle in cui si descrive la musica e quelle di approfondimento storico; altre invece solo io, ad esempio quelle relative alla descrizione del paese, che è davvero il mio, Badile [frazione di Zibido San Giacomo, N.d.R.]. Ho scritto anche le emozioni di Marta, perché l’ho sentita molto vicina come personaggio».
Cos’ha dato a lei, persona con disabilità motoria, scrivere di una disabilità sensoriale?
«È stato un modo di mettere per iscritto la ricchezza che c’è nel mio rapporto con Filippo. Io e lui facciamo tante cose insieme. Ad esempio, lui riesce ad imboccarmi. Gli soffio sulla mano per fargli capire dov’è la mia bocca. Io, in cambio, lo porto in giro in carrozzina elettrica. Attraverso di lui ho scoperto cos’è la cecità. Credevo fosse buio e basta, invece ci sono i colori delle emozioni e delle percezioni. Con le mani Filippo riesce a vedere. Dice sempre che io gli ho insegnato a camminare e lui mi ha insegnato a vedere. Scrivere di questo argomento mi ha reso più sensibile alle disabilità altrui. Mi sono sempre concentrata sulle barriere per le disabilità motorie e invece ora, quando mi muovo, faccio caso anche a quelle che limitano la mobilità di chi ha una disabilità sensoriale. Sono ostacoli diversi, a volte persino opposti. Ad esempio, per me le pedane in discesa dai marciapiedi sono fondamentali, mentre i non vedenti preferiscono il gradino, perché possono percepire meglio il cambiamento di luogo, dal marciapiede alla strada».
Cosa possono ricavare di particolare i lettori con disabilità dal vostro libro?
«Una riflessione che credo valga per tutte le disabilità è quella relativa all’eccessivo amore. Spesso accade infatti che i genitori di bambini e giovani con disabilità tarpino loro le ali per un atteggiamento eccessivamente protettivo. Credendo di fare il bene dei figli, non permettono loro di vivere veramente».
Lei ha scritto diversi testi teatrali. Qual è la differenza tra la scrittura narrativa e quella teatrale?
«È più divertente scrivere un testo teatrale perché poi lo vedi realizzato, vedi gli attori sul palco che si muovono e dicono quello che vuoi tu. E senti anche la reazione del pubblico. Scrivere un libro è un’esperienza più seriosa. La storia va portata a termine senza errori. Il testo teatrale è più elastico: puoi sempre aggiungere o togliere qualcosa, mentre lavori con gli attori».
Un’altra sua passione è la pittura. Cosa dipinge e come lo fa?
«Gatti e cani, ma non solo. Ho sempre disegnato, ma con l’andare del tempo ho perso forza nelle braccia e dopo i vent’anni avevo smesso. Poi, circa quattro anni fa, un amico mi chiese un quadro. Provai a dipingerlo con la bocca e ci riuscii. Allora mi impegnai a perfezionare la tecnica e ora dipingo moltissimo. Mi rilassa, è una delle cose che mi piace fare di più. Dal foglio bianco nascono i colori e le forme, è un po’ come a teatro, posso vedere concretamente la nascita di qualcosa dal niente».
Le piace fare anche altre cose, sempre in ambito artistico?
«Faccio decorazioni. Più che altro floreali. Decoro lampade, vasi, qualsiasi cosa abbia una superficie e tutto sempre con la bocca. A casa inventiamo vari modi per sistemare gli oggetti in modo che io possa raggiungerli con la bocca e decorarli. Sto anche facendo un corso di teatro nelle vesti di attrice, non l’avrei mai detto, visto che non posso muovere il corpo, ma l’insegnante dice che l’espressività va oltre il movimento. E poi ho un’armonica a bocca, ma devo ancora imparare a usarla. Magari un giorno suonerò in duetto con Filippo. Sarebbe bellissimo».
Che tipo di mobilità ha e come vive la sua situazione di disabilità?
«Muovo il pollice e un pochino la testa, il che è un bene perché così riesco a dipingere. Ho sempre avuto un buon rapporto con i miei limiti fisici perché posso esprimermi con l’arte ed essere libera. Ultimamente, però, mi rendo conto che la disabilità mi frena e mi chiedo cosa farei se avessi la mobilità. Se riesco a fare tanto già così… anche se magari, chissà, la mia creatività si spegnerebbe».
*Intervista pubblicata dal n. 173 di «DM», periodico nazionale della UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), con il titolo Scrivere da amici, qui ripresa per gentile concessione, con lievi riadattamenti.