«Il coinvolgimento dei giovani come protagonisti – scrive Stefania Dondero, responsabile del Progetto Lab.Giovani della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap) – è una strategia ineludibile per la crescita di nuovi leader (ambizione massima) e per la “formazione” di nuovi attivisti, volontari, soci di associazioni federate e no».
A “bocce ferme”, dunque, tentiamo di fare un bilancio di questa iniziativa – Lab.Giovani, appunto – stage attraverso l’Italia (Roma, Terni, Padova, Milano e ancora Roma), che nella prima parte di settembre ha coinvolto una trentina di giovani con varie disabilità, provenienti dalle Regioni del Sud Italia e delle Isole, zone dove, da qualche tempo, si erano già svolti seminari e incontri incentrati su tematiche trasversali relative al mondo della disabilità. Da quegli incontri era emerso il nucleo dei partecipanti allo stage.
Cediamo dunque la parola ai diretti protagonisti di Lab.Giovani – esperienza che il nostro sito aveva già ampiamente presentato (se ne legga cliccando qui) -, vale a dire la citata Stefania Dondero, Daniela Bucci, direttore dell’Associazione Nuovo Welfare e coordinatrice del progetto e Matteo Schianchi, consulente della FISH, che ne ha seguito da vicino gli sviluppi.
«Lab.Giovani voleva e vuole rappresentare un percorso – uno dei tanti possibili – per avvicinare in modo consapevole, informato e condiviso i giovani con disabilità all’agire politico, nel senso più generale e migliore del termine.
La FISH si è presa questa “briga”, credendo che il coinvolgimento dei giovani come protagonisti (a partire dal Sud) sia una strategia importante e ineludibile per la crescita di nuovi leader (ambizione massima) e per la “formazione” di nuovi attivisti, volontari, soci di associazioni federate e no.
L’investimento è dunque sulla maturazione di conoscenze, sulla capacità di lettura della propria realtà, sulla consapevolezza dei propri diritti e sul poter agire insieme ad altri. Il tutto nel quadro di uno scenario drammatico di feroce contrazione delle risorse e dei diritti che la FISH combatte da tempo.
Una sfida complessa, quindi, che la Federazione ha voluto raccogliere impegnandosi anche a sostenere il gruppo dei giovani coinvolti oltre il progetto stesso, e a formulare altre iniziative progettuali per promuovere un nuovo percorso, che potrebbe chiamarsi, ad esempio, semplicemente FISH-Giovani».
Stefania Dondero
Responsabile del Progetto Lab.Giovani
«Lab.Giovani si è rivelato in sé un’occasione importante di partecipazione per i giovani che vi hanno preso parte e ha quindi raggiunto il suo principale obiettivo, che era quello di contrastare l’esclusione e offrire appunto opportunità di partecipazione.
Nella quasi totalità dei casi, coloro che sono stati coinvolti – pur prendendo parte alla vita di una qualche associazione, come soci, utenti, operatori o volontari – si sono trovati per la prima volta a confrontarsi e a ragionare insieme sulla disabilità come discriminazione e mancanza di partecipazione. Quasi nessuno conosceva il modello sociale della disabilità, alcuni sapevano appena dell’esistenza della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e pochi ne avevano letto anche solo un articolo.
Nonostante, dunque, nella loro esperienza di vita si fossero quotidianamente rapportati con limiti e ostacoli strutturali e culturali posti dal contesto sociale, si sono rivelati fortemente condizionati dalla “cultura dominante”, che vede nella disabilità una “disgrazia personale” e la identifica con la patologia, la menomazione, l’incapacità individuale (quando ho chiesto loro, ad esempio, “che cos’è la disabilità?”, le parole usate sono state proprio queste: patologia, limite personale, invalidità, handicap… Ho iniziato a porre questa domanda proprio perché, nei seminari residenziali regionali, mentre parlavamo e svolgevamo le attività, mi sono resa conto che quasi nessuno dei partecipanti conosceva il modello sociale della disabilità, a differenza di quanto avevo inizialmente supposto, e ho quindi introdotto una parte di formazione – anche se molto breve – proprio su questo aspetto).
Tutti sono rimasti stupiti e colpiti dal fatto che si potessero impostare e vedere le cose secondo una prospettiva diversa, che sottrae la disabilità all’individuo e la restituisce alla società. Questo diverso punto di vista li ha entusiasmati, facendo circolare idee ed energie, dando nuova sostanza ai loro progetti. Ma non è certo in un tempo così breve – e sarebbe stato eccessivo pretenderlo – che si è potuto fare “entrare” quel modello in ognuno di loro e far sì che riuscissero ad applicarlo immediatamente a tutte le nuove attività che abbiamo compiuto insieme. Ciò infatti avrebbe significato modificare convinzioni sin troppo sedimentate, ma sicuramente un primo mattone è stato posto.
Il fatto che per molti dei giovani colinvolti questa esperienza fosse la prima ha prodotto su tutti un forte impatto emotivo: è stata un’occasione per contrastare l’isolamento, stare insieme agli altri, costruire nuove relazioni, sentirsi ascoltati e capitati, uscire di casa, viaggiare. Ma è stata anche un’opportunità importante per riflettere e confrontarsi su questi temi – e non una cosa che capiti così frequentemente -, per scambiarsi esperienze tra giovani con disabilità e non, giovani con diverse tipologie di disabilità, provenienti da territori, contesti e Regioni differenti, giovani inclusi e giovani più isolati o iperprotetti dalle famiglie, con scarse occasioni di partecipazione alla vita della comunità, che offre loro più assistenza che opportunità di crescita e di empowerment [il rafforzamento della propria conspavolezza, N.d.R.], giovani che si sentono di avere avviato o che vorrebbero intraprendere un percorso di impegno politico e associativo e giovani che forse non lo faranno mai.
Un’altra cosa che ho capito da Lab.Giovani è che bisogna parlare ai giovani – ciò che non è così scontato da parte delle associazioni – e bisogna farlo con strumenti e modi diversi da quelli usati finora.
La totalità dei partecipanti, infatti, è rimasta molto colpita dal modo di realizzare i seminari residenziali regionali, perché per la prima volta ha potuto “imparare facendo”. I ragazzi si aspettavano di venire a un seminario stile convegno, per lo più noioso, dove prendere appunti, non essere interpellati e tornare a casa senza poi essere cambiati più di tanto. E invece hanno scoperto che si può tornare a casa diversi da come si era partiti, più ricchi di informazioni e conoscenze, idee, progetti, ma anche di amicizie e relazioni, di capacità personali e collettive, con la certezza di aver “messo del proprio”, di avere preso molto dagli altri, ma di avere anche dato molto.
Parecchi di loro, in fase di restituzione dell’esperienza (alla fine della due giorni chiedevo di fare un bilancio), mi hanno detto che la cosa più bella era stata quella di “essersi sentiti ascoltati” e spesso per la prima volta; di avere imparato che si può essere formati anche con tecniche diverse da quelle frontali, più coinvolgenti e anche divertenti; di avere scoperto che confrontarsi con gli altri arricchisce, apre a situazioni completamente diverse dalla propria, in cui ci si può rendere, ad esempio, di essere discriminati, ma anche di discriminare gli altri: per tipologia di disabilità, per orientamento sessuale ecc.
L’ultima cosa che vorrei sottolineare è che Lab.Giovani – come ho sempre detto a tutti – ha voluto mettere un seme che però loro dovranno coltivare per coglierne i frutti. Questa esperienza, infatti, ha rappresentato solo l’inizio di un percorso che dovrà viaggiare sulle loro gambe.
Ciò non significa che la FISH abbia l’intenzione di abbandonarli a se stessi, ma che è da loro che deve partire la motivazione e la volontà di impegnarsi nella vita associativa. Se l’obiettivo è quello dell’inclusione delle persone con disabilità, questo non potrà essere raggiunto se ciascuno opererà singolarmente per realizzare il proprio progetto, in una sorta di “lotta per la sopravvivenza personale”, un po’ come può accadere per la singola associazione che in modo miope si reca a chiedere i fondi all’Amministrazione di turno, per garantire la sopravvivenza del proprio progetto – per quanto buono possa essere – guardando agli interessi del proprio “orto”, ma al di fuori di un quadro condiviso.
Questo non ce lo possiamo permettere, soprattutto in un contesto come quello attuale in cui il drastico taglio dei trasferimenti agli Enti Locali e la volontà di affossare il sociale esigono compattezza e lotta a livello nazionale, ma anche la capacità di partecipare nei territori alle decisioni e di incidere sulle inevitabili scelte di priorità».
Daniela Bucci
Direttore dell’Associazione Nuovo Welfare
Coordinatrice del Progetto Lab.Giovani
«Durante lo stage di Lab.Giovani, la presenza di diverse tipologie di disabilità è stata vissuta in modi diversi. In molti casi il gruppo ha costruito immediate relazioni di attenzioni e di solidarietà reciproche. Per alcuni, questa sembra essere stata anche un’esperienza di arricchimento poiché ha permesso di conoscere disabilità, difficoltà e risorse personali sconosciute. In altri casi, “velocità diverse” all’interno del gruppo hanno costituito un problema attorno a cui confrontarsi (anche se questo confronto è avvenuto soprattutto a gruppetti): ma come possiamo pensare di impegnarci nelle associazioni per “essere inclusivi”, se non sempre riusciamo ad esserlo tra di noi?
Quindici giorni di stage, esperienze di relazioni personali, incontri con rappresentanti di associazioni e movimenti mettono tanta di quella carne al fuoco che per poter affrontare seriamente tutte le porte che si sono aperte, sarebbero necessari altre tre stage, stanziali, solo per rifletterci. Ma anche questo è un bagaglio che ciascuno si sarà riportato a casa e per il quale deciderà se “metterlo in agenda” tra le cose per cui fare da subito qualcosa a livello personale, oppure se metterlo (momentaneamente o per sempre) in soffitta.
Vissuto personale e ruolo associativo si sono poi incontrati a più riprese quando sono state poste questioni e istanze relative a singole tipologie di disabilità. “Perché proprio questa attenzione specifica su un tipo di disabilità?”, ha chiesto una ragazza alla responsabile dell’AIPD (Associazione Italiana Persone Down), venuta a Roma ad incontrare lo stage della FISH. Più volte il tema è stato ripreso e sicuramente è stato sperimentato quotidianamente. Si parte da se stessi, dalla propria esperienza di disabilità, da quella dei propri figli. Le associazioni e il loro impegno civico e politico nascono così, ma poi è necessario andare oltre. I diritti sono diritti di tutti; è corretto partire dalla conoscenza delle singole forme di disabilità, dalle specificità, poi però è necessario fare un salto in avanti, assumendo le esigenze e le problematicità delle singole tipologie di disabilità, per ricollocarle in un ambito in cui – va detto ancora – i diritti sono di tutti.
Il “leader associativo doc” ragiona addirittura all’incontrario: i diritti anzitutto, per poi capire come “nei singoli casi” trovano una specifica applicazione. Questa prospettiva collettiva è stata ribadita a più riprese, sia come modalità generale sia come modalità pratica per la vita associativa locale. Non si parte mai da zero e se si vuole operare sul territorio, è necessario conoscere gli altri interlocutori, mettersi in rete per “fare fronte comune”, per portare avanti i diritti e le istanze del maggior numero di persone con disabilità».
Matteo Schianchi
Esperto della FISH
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