Sono una persona non vedente e percepisco regolare indennità di accompagnamento, a seguito di un glaucoma corneale bilaterale, riconosciuto fin dalla nascita, confermato in un verbale emesso dalla preposta Commissione Medica di Lucca nel 1971 e ribadito da un ulteriore verbale di prima Istanza, rilasciato da quella di Milano nel 1986.
Com’è di norma e giusto, l’INPS, erogatore dell’emolumento per conto dello Stato, ha inteso sottopormi al controllo delle condizioni visive, nonostante la diagnosi estremamente chiara, presente nei verbali in suo possesso.
Il 20 settembre scorso, dunque, mi sono regolarmente presentato agli Uffici INPS di Milano, in Via Melchiorre Gioia, certo di fare una “passeggiata”, tanto inutile quanto priva di sorprese. Ma arrivato lì, ironia della sorte, vengo accolto da due dottoresse che subito invece mi dimostrano il contrario, chiedendomi la documentazione sull’ultima visita effettuata, che da cieco acclarato da tempo nel tempo, naturalmente non ho.
Successivamente, una delle due mi sfila gli occhiali (da sole), mi apre l’occhio destro, tenta di farmi guardare ciò che non vedo e si allontana. Dopo una breve pausa, l’altra mi chiede se sono da solo, come se la cosa fosse strettamente riconducibile ai fini della valutazione clinica. Alla mia risposta civilmente infastidita, con un po’ d’imbarazzo, si incomincia a dirmi che purtroppo, nonostante la cosa sia evidente, la documentazione non è sufficiente a far loro emettere un verdetto definitivo sul mio stato di cecità e che, pertanto, avrei avuto un mese di tempo per acquisire quella attraverso cui non avrei mai più avuto problemi in materia di revisione.
E così mi consegnano un foglio scritto a mano, che testualmente mi viene letto, con l’elenco dei referti da esibire: certificato di prima visita oculistica; potenziali evocati visivi; misurazione del campo visivo.
Incredulo, ma anche ferito nell’intimo del mio orgoglio, regaisco in modo determinato, fino a far riflettere le mie interlocutrici sul fatto che – pur con il dovuto rispetto per la professionalità di ognuno – nonostante la laurea non fossero in condizione di prendere atto di un caso tanto tangibile come il mio, ma solo di apporre sigle e timbri su diagnostiche altrui. Reazione che, ovviamente, sarebbe stata ben diversa se – anziché ostinarsi a ritenere legittima la necessità di quegli ulteriori controlli – le due commissarie incaricate mi avessero palesato invece la loro comprensione per una burocrazia ai limiti dell’assurdo.
La prenotazione
Con la voglia repressa di sbattere sul “tavolo dell’Inquisizione” la protesi che dal 1960 sostituisce il mio occhio sinistro e con la promessa fatta ad alta voce che avrei fatto oggetto la vicenda della massima divulgazione anche mediatica, mi sono congedato, accompagnato dalla sconveniente ilarità delle dottoresse e già sulla via del ritorno, ancora in taxi, ho fissato l’appuntamento con il medico per la necessaria prescrizione, regolarmente redatta il giorno successivo, tra i commenti di incredulità e sbigottimento dello stesso medico.
A quel punto era il 21 settembre e si trattava di provvedere alla prenotazione delle visite che – essendo commissionate dallo Stato – avrebbero dovuto essere effettuate solo in strutture pubbliche o convenzionate. In sintesi:
– il Servizio Sanità di Prenotazione della Regione Lombardia mi fa sapere in prima battuta che non può prendere prenotazioni per tre accertamenti alla volta e mi rinvia ad alcune singole strutture;
– acquisiti i numeri diretti di cinque o sei di queste, mi metto all’opera, rispettando l’orario riservato da ciascuna di esse alle prenotazioni, ma sempre invano;
– un amico che lavora all’INPS mi consiglia di telefonare all’Ospedale Sacco, dove, a suo dire, sarebbero stati disponibili e solerti. Chiamo e mi si dice che una delle tre visite da loro non si effettua e che la prima avrei potuto averla per il 14 novembre, la seconda non prima del 18 gennaio 2012.
Si arriva quindi al 27 settembre, con il più assoluto nulla di fatto e, preoccupato per il trascorrere del tempo, mi premuro di far presente all’INPS, via fax, le difficoltà incontrate, nonostante il mio impegno. Alcuni giorni dopo, però, vengo raggiunto da una telefonata in cui mi si ricorda che io sono solo uno dei trecentomila in questa situazione – come se la cosa dovesse consolarmi -, che a Milano vi è una quantità innumerevole di strutture cui rivolgersi e che, pertanto, la mia era solo una posizione di «catastrofico, vittimistico atteggiamento».
Torno allora al Servizio Sanità di Prenotazione della Regione e questa volta con maggiore fortuna. L’impiegata, infatti, alla quale spiego la situazione, si prodiga al meglio per trovare la miglior soluzione possibile e in breve tempo mi prospetta una visita al Policlinico per il 10 ottobre, che ovviamente confermo.
Per le altre visite, però, prova con la Clinica Città Studi (meglio e più tristemente conosciuta anche come Clinica Santa Rita) e le si blocca il sistema informatico.
Allora provo io con la stessa Clinica e trovo due posti, per il 14 e il 20 ottobre, giorno in cui, neanche a farlo apposta, sarebbe scaduto il periodo assegnatomi per la consegna dei referti richiesti.
Le visite
Il 10 ottobre, dunque, mi reco al Policlinico per effettuare i potenziali evocati visivi – che non conoscevo per metodica e contenuto – sperando di trovare un oculista tanto bravo e comprensivo che potesse dar fine a questa inutile “via Crucis”, apponendo la sua firma anche sugli altri due documenti rimanenti.
Ma non tutto così è semplice: la dottoressa, infatti, è una neurologa, non abilitata, pertanto, a diagnosticare su una materia non di sua competenza. In compenso, però, mi sento dire che “potenzialmente” io potrei vedere, perché in grado di dirigere il mio sguardo verso destra e verso sinistra… Senza parole…
Il 14 ottobre, poi, alla Santa Rita, si pone il problema di come misurare il campo visivo. Dapprima mi si dice che anzitutto occorre una visita oculistica e che, visto che l’avrei effettuata il giorno 20, quella del campo visivo me l’avrebbero accordata nella stessa mattinata. Per impegni assunti in precedenza, ho dovuto però rifiutare, dopodiché l’addetto al macchinario – che non sono in grado di dire se fosse proprio un oculista – chiamati i “debiti rinforzi”, mi ha posto con il mento su un appoggio, davanti al quale mi ha spiegato che vi erano delle luci particolari e mi ha fornito di un apposito pulsante da azionare ad ogni cambiamento luminoso che, inutile a dirsi, non ho potuto azionare proprio mai, con il più ovvio imbarazzo da parte mia e da parte sua…
E si arriva finalmente alla visita oculistica, effettuata come da programma il 20 ottobre e che da “prima visita” si è trasformata in ultima, ma che è stata anche la più seria, la più facile e la più veloce, in quanto il dottore di turno, dopo avermi doverosamente guardato con la sua lampada, ha poi redatto il certificato, estrapolandolo pari pari dal verbale oculistico che avevo con me per ogni evenienza.
La consegna
“Raggiante” per il compito finalmente giunto in porto, e per di più nei tempi previsti, riprendo la via dell’INPS per consegnare la refertazione richiesta.
Stavolta, ad accogliermi, c’è una signora molto garbata e disponibile che per trovare la mia cartella impiega dieci minuti buoni, perché – mi dice – «non esiste un’archiviazione alfabetica riservata alla documentazione dell’utenza».
Trovata finalmente la pratica, consegno il tutto, senza però riavere in cambio tutto ciò che generalmente è nella prassi e avrei pertanto voluto. Ho chiesto quindi di protocollare il materiale consegnato e mi è stato detto che quello non è un Ufficio Protocollo e che pertanto non si rilascia nulla; ho esibito i ticket relativi alle visite che, effettuate per conto dello Stato, ritenevo a carico di quest’ultimo. Anche qui, invece, la risposta è un “no”, tanto comprensivo quanto secco e inappellabile. Ho fatto anche presente che a un mio amico l’INPS ha disposto la visita, stabilendone luogo e orario e senza alcun aggravio economico. Risposta: «Al suo amico, evidentemente, non sono stati richiesti i potenziali evocati visivi». Dal che si deduce che se è vero “che non tutti i mali vengono per nuocere”, lo è altrettanto “che non tutte le disgrazie sono figlie dell’identica fortuna”.
Nel congedarmi, anche a lei ho fatto presente che avrei denunciato il tutto al maggior numero di mezzi d’informazione possibile e, a differenza di quanto successo un mese prima, ho colto un soddisfatto assenso di massima che, pur privo di commenti particolari, aveva il sapore di un invito a procedere tutt’altro che personale.
Tristi conclusioni
Alla fine della storia – velata di ironica tristezza e avvolta nella più squallida vergogna – che diffondo solo ora per poterla raccontare tutta e che purtroppo, a quanto so, non è nemmeno unica nel suo genere – l’obiettivo che mi pongo non è tanto quello di avere giustizia, bensì quello di far riflettere, se ancora ce ne fosse bisogno, e di far capire all’opinione pubblica “in quali mani siamo”, ovvero:
– a quale burocrazia si debba ricorrere per arrivare a una diagnosi tanto evidente come la mia;
– quanti soldi vengano spesi dal Cittadino e dallo Stato in modo assurdo per cose ancora più assurde;
– quanto tempo si faccia perdere alla classe medica per diagnosi che potrebbero essere redatte da chiunque in possesso di un minimo di competenza, soprattutto quando questi sia chiamato a far parte di un’apposita, specifica Commissione;
– con quali “prodezze” burocratiche si possano prolungare i tempi di attesa in materia di sanità;
– l’assurdità di nominare Commissioni che al loro interno non prevedano gli esperti relativi alle patologie da sottoporre a controllo;
– a quali frustranti umiliazioni venga sottoposta una persona per poter usufruire dei propri diritti;
– quanta ignoranza, in materia di disabilità, sia ancora presente nella classe medica;
– quanti e quali traumi possano causare storie come queste in persone affette da deficit, ma non solo, prive di sostegno umano e di strumentazione culturale sufficiente a sopportarne il peso logistico-organizzativo, psicologico e morale.
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