Leggendo gli articoli di Giorgio Genta e Marco Vesentini pubblicati da questa testata [li si veda cliccando rispettivamente qui e qui, N.d.R.], a proposito della “disabilità grave”, ho avvertito un certo disagio. Infatti, ancora una volta la parola “disabilità” viene utilizzata in maniera ambigua, senza cogliere la novità di un termine che risulta invece, nel suo esatto significato, estremamente innovativo.
In tal senso, la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità è chiarissima: «La disabilità è il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri».
Quindi disabilità non è un sinonimo di limitazione funzionale, di incapacità, di invalidità, e via descrivendo, con terminologie negative e stigmatizzanti; la disabilità è invece una relazione sociale, tra le caratteristiche dell’individuo e il modo in cui la società ne tiene conto. La disabilità non appartiene a una persona, ma è il risultato di un’interazione.
Si può parlare dunque di disabilità grave alludendo a persone? No, questo è profondamente sbagliato, perché utilizza il termine “disabilità” in maniera distorta, caricandolo di connotazioni negative e per giunta soggettive. Non è un caso che la Convenzione non usi il termine “grave” o “gravissimo” applicato alle persone. Infatti, nel concetto di disabilità, le limitazioni funzionali sono solo uno dei corni della condizione di disabilità, mentre l’altro è dato dalle condizioni ambientali e sociali. Variando uno dei due termini della relazione (persone con menomazioni da una parte, barriere comportamentali e ambientali dall’altra), cambia l’interazione e quindi le condizioni di disabilità. Questo, pertanto, comporta un’attenzione a come ci esprimiamo.
Nel Preambolo della Convenzione, che è la base interpretativa del testo vero e proprio, si sottolinea la «necessità di promuovere e proteggere i diritti umani di tutte le persone con disabilità, incluse quelle che richiedono un maggiore sostegno», ponendo l’attenzione non tanto a una categorizzazione tassonomica spesso discriminatoria (grave, gravissimo), presente nel linguaggio di tanti operatori, quanto alle responsabilità della società nei riguardi di persone che richiedono particolari qualità del prendersi cura di loro.
Emerge così il concetto relazionale di disabilità e viene sottolineato che la prevenzione e/o riduzione della disabilità nel mondo può essere affrontata sia dal punto di vista medico (riduzione delle limitazioni funzionali), sia dal punto di vista sociale (riduzione delle barriere comportamentali e ambientali). Non a caso la Convenzione assegna agli Stati l’obbligo di rimuovere le discriminazioni e le condizioni di diseguaglianza (articolo 5). La prevenzione delle disabilità da un punto di vista sociale è perciò un obbligo degli Stati – e non un costo insostenibile -, esigibile davanti a un tribunale, anche se in maniera individuale.
Per questo usare la dizione “disabilità grave e gravissima” è del tutto fuorviante.
Anche il tema della disabilità intellettiva va meglio precisato. Innanzitutto anche qui vanno utilizzati in contesti appropriati i termini sanitari che descrivono le patologie – ad esempio insufficienza mentale -, cercando di non produrre una confusione tra la definizione di patologie e quella di persone, come già Basaglia ricordava nelle sue lezioni brasiliane [Franco Basaglia, Conferenze brasiliane, 1979, N.d.R.]: ridurre cioè una persona alla sua patologia è una violazione di diritti umani.
L’altro elemento – forse il più rivoluzionario della Convenzione – è che i diritti umani si applicano a tutte le persone con disabilità. L’articolo 12, infatti (Uguale riconoscimento dinanzi alla legge), rappresenta un punto di svolta e non a caso è stato il più controverso nella discussione all’Ad Hoc Committee [l’organismo che ha elaborato la Convenzione ONU, N.d.R.], con forti resistenze da parte di Paesi come la Cina e la Russia, che per le persone con disabilità hanno sistemi di trattamento estremamente istituzionalizzanti e manicomiali.
Il riconoscimento, dunque, che anche in presenza di un’incapacità a rappresentarsi da soli e quindi della necessità di trasferire a terzi la capacità giuridica (in Italia questo avviene ad esempio con le figure del tutore o dell’amministratore di sostegno), siano garantiti i diritti umani della persona («tutte le misure relative all’esercizio della capacità giuridica forniscano adeguate ed efficaci garanzie per prevenire abusi in conformità alle norme internazionali sui diritti umani») è profondamente innovativo. Questa impostazione mette infatti in discussione le tradizionali forme di tutela: rappresenta una forma di tutela dei diritti umani inviare una persona con disabilità in un istituto? O l’assegnazione della rappresentanza legale di una persona in acuzie psichiatrica a un medico finché non sia guarita o farla rinchiudere – spesso a vita – in un manicomio, come avviene ancora nella maggioranza dei Paesi del mondo? E ancora, la tutela di chi non può rappresentarsi da solo si può limitare alla tutela del patrimonio e alla custodia, o deve riguardare il campo del prendersi cura dei suoi diritti umani, senza discriminazioni nei confronti di altre persone?
Applicare i diritti umani a tutti, quindi, e in particolare alle persone con disabilità intellettiva, è un altro dei campi di lavoro che il nostro movimento deve approfondire, per migliorare la qualità di vita e l’accesso a diritti prima di oggi cancellati alle stesse persone con disabilità intellettiva.
*Membro del Consiglio Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International), componente dell’Ad Hoc Committee (Comitato Ad Hoc) che ha elaborato la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità.