È uscito di recente un testo che parla di disabilità, Il loro sguardo buca le nostre ombre. Dialogo tra una non credente e un credente sull’handicap e la paura del diverso, pubblicato da Donzelli (221 pagine, 16 euro).
Il dialogo consiste in uno scambio di lettere tra due persone che ben conoscono le questioni della disabilità: Julia Kristeva, semiologa, scrittrice, intellettuale, docente all’Università di Parigi, madre di un figlio con disabilità intellettiva e autrice (tra l’altro) nel 2003 del testo francese Lettera al presidente della Repubblica sui cittadini in situazione di disabilità ad uso di chi è disabile e di chi non lo è; Jean Vanier, ex ufficiale dell’esercito canadese, laureato in filosofia e fondatore nel 1964 della Comunità dell’Arca, associazione impegnata nel mondo della disabilità con centotrenta comunità nel mondo e anche in Italia) e nel 1971 del movimento ecclesiale Fede e Luce, legato alla disabilità.
La prefazione al testo è del biblista e vescovo cattolico Gianfranco Ravasi, che inquadra le due figure, il loro dialogo e la questione teologica del “Dio handicappato”, avviata nel 1994 dal noto testo The Disabled God: Toward a Liberatory Theology of Disability di Nancy L. Eiesland (1994).
Il dialogo tra i due autori ci porta lontano dalla drammatica contingenza nella quale siamo – di questi tempi più che mai – portati a pensare alle questioni della disabilità. E questo è il merito del libro. Non si tratta cioè di un’evasione dall’immediato fine a se stessa, di “roba consolatoria” da intrattenimento, ma di metterci davanti al gran numero di questioni profonde che la disabilità pone.
Non troveremo soluzioni a simili questioni (se mai è possibile trovarle e se è possibile trovarle in un testo), ma spunti di riflessione. Personalmente, mi intriga conoscere meglio Celine e il carteggio tra Voltaire e la “dama cieca”. Così come mi fa riflettere che si consideri tanto rivoluzionaria (unita all’attesa e all’enfasi dell’annuncio) l’idea di una vita per le persone con disabilità in mezzo agli altri e non in luoghi separati. Si tratta eventualmente di riflettere – se non di come rendere possibile questa “utopia” – su quali siano le innumerevoli questioni che stanno dietro a questo principio tanto sacrosanto quanto difficile, ancora oggi, da rendere diffuso e operante.
I due autori ragionano su un gran numero di temi a partire dalla loro esperienza, dal loro essersi avvicinati alla disabilità come scelta di vita (Vanier), all’averci dovuto fare un giorno i conti, assumendo la questione come occasione di riflessione antropologica e di impegno civico (Kristeva).
Il volare subito alto degli argomenti fa un po’ a pugni, inizialmente, con uno stile delle lettere un po’ retorico, pomposo e di un bisogno degli autori di ben presentarsi. Ma questa pedanteria è anche il frutto del fatto che essi non si conoscono, che usano la prudenza dell’inizio di qualsiasi rapporto, che si studiano, che “si annusano”. Si supera poi velocemente questo impaccio, per loro e per il lettore, e alla fine ne conosceremo, oltre ai pensieri, anche parte delle loro biografie.
È arduo sintetizzare tutti i temi attraverso cui sono declinate le questioni della disabilità, poiché si passa dall’attualità alle biografie personali, dalla storia alla filosofia, dalla psicanalisi all’antropologia.
Particolarmente interessanti sono le questioni relative alla maternità da parte di una donna che è nel contempo madre di un figlio con disabilità e psicanalista. La distanza, rispettosa, tra i due autori in tema di fede è evidente e non affatto sottaciuta. Sembrano tuttavia incontrarsi in quell’idea di “tirannia della normalità” e di uno “sguardo sulla disabilità che tarda a cambiare”.
Se la riflessione è interessante per i numerosi temi affrontati, lo è però un po’ meno in quanto a radicalità dell’approccio; spesso, infatti, la disabilità è còlta a mezza strada tra le elevate questioni filosofiche e le basse questioni politico-materiali, ma in questo limbo sembra perdere forza. Nondimeno, di una questione antropologica “senza soluzioni” (giacché dalla disabilità non si guarisce, ma la si vive e basta), i due autori ci forniscono esperienze che siamo poco abituati a tematizzare e attorno a cui riflettere. Le conosciamo, ci appartengono, ma non fanno quasi mai parte di riflessioni più profonde che escano dalla pura e semplice rivendicazione (di cattive condizioni di vita) o dai registri del consolatorio e del sentimentalismo.
È dunque nuovamente questa messa a tema anche per i sentimenti che si accompagnano alla disabilità che il libro fornisce al lettore spunti di riflessione e indicazioni di temi.
Tanto quanto lettore, tanto quanto traduttore dal francese, mi è infine difficile resistere dal denunciare una difficoltà di lettura dovuta alle innumerevoli volte in cui ricorrono i termini handicap, handicappati.
La lingua francese di certo non aiuta: handicap continua ad essere il termine di riferimento per definire la questione. È però vero che, per il significato che invece quella terminologia assume nella nostra lingua, sarebbe stato preferibile l’uso dei sinonimi disabilità, persone con disabilità, persone disabili, che compaiono pochissime volte. Come mai nelle diverse fasi che accompagnano la pubblicazione di un libro (dalla traduzione in poi), nessuno si è posto la questione, che non è solo linguistica?
Un’altra cosa poi è sfuggita, ed è stata dunque resa in italiano, letteralmente, come “inquietante estraneità”. In italiano, però, c’è un termine decisamente più pregnante, ed è “perturbante”, per definire quel sentimento identificato da Freud come qualcosa che ci è “nel contempo estraneo e familiare”, provato di fronte alla morte, alla follia, alla disabilità.
*Storico. Autore del libro La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà (Milano, Feltrinelli, 2009).
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