In riferimento a una riflessione di Giorgio Genta pubblicata su queste pagine [“I gravissimi: chi sono e quanti sono?”, visionabile cliccando qui, N.d.R.], senza dilungarmi in dotte ed erudite disquisizioni sul concetto di “disabili gravissimi”, riterrei giusto precisare un paio di aspetti che, se non vengono letti nella giusta ottica, rischiano di portare indietro l’orologio di parecchi decenni.
Il concetto di disabilità – è noto ormai a tutti – è profondamente mutato con l’introduzione del nuovo standard ICF [l’International Classification of Functioning, Disability and Health, fissata nel 2001 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.]. Infatti, secondo la nuova classificazione (approvata da quasi tutte le nazioni afferenti all’ONU), il concetto di disabilità diventa un “termine ombrello” che identifica le difficoltà di funzionamento della persona sia a livello personale che nella partecipazione sociale.
In tale classificazione, dunque, i fattori biomedici e patologici non sono e non possono essere gli unici ad essere presi in considerazione, ma si deve considerare anche l’interazione sociale. L’approccio, così, diventa multiprospettico – biologico, personale, sociale – e la stessa terminologia usata è indice di questo cambiamento di prospettiva, in quanto ai termini di menomazione, disabilità e handicap (che attestavano un approccio essenzialmente “medicalista”, come correttamente osserva Genta), si sostituiscono quelli di strutture corporee, attività e partecipazione.
Di fatto lo standard diventa più complesso, in quanto si considerano anche i fattori sociali e non più solo quelli organici. Quindi la complessità della persona è ciò che conta.
Se così è, come si può dire che i disabili “gravissimi” sono pochi? Il rischio, paradossale, è ancora una volta quello di ricadere nell’approccio “medico” (chi cioè dev’essere assistito 24 ore su 24). E chi ha, per esempio, comportamenti etero- e autoaggressivi di grande impatto socio-relazionale come sarebbe classificato? Gravissimo? Ma come e quando potrebbe essere lasciato solo? E come potrà la sua esistenza essere “inclusa” in quella della società? Ricordando che le lacerazioni familiari che tali comportamenti generano sono spesso devastanti.
Ritengo in conclusione che queste siano questioni complesse e che le semplificazioni non aiutino. La “battaglia” per i diritti delle persone con disabilità è di tutti. Nessuno escluso!
*AIAS Verona (Associazione Italiana Assistenza Spastici).
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