«La percentuale di disabili nei territori palestinesi è pari al 5,5% del totale della popolazione, uno dei tassi più alti al mondo. Il 30% di essi non lo è per cause congenite, ma lo è divenuto a causa delle violenze seguite all’occupazione militare»: si apre con queste frasi il breve documentario realizzato nel corso del 2011 da Abdullah Al Atrash, italo-siriano che, insieme alla moglie, svolge attività di volontariato in Italia, negli Emirati Arabi Uniti e in Palestina.
Proprio di quest’ultimo Paese si occupa il suo documentario Ghorfat Hamdan (“La stanza di Hamdan”), composto da alcune interviste rivolte a uomini e donne palestinesi con disabilità – più o meno giovani – o a persone che di disabilità si occupano a vario titolo.
In meno di diciannove minuti, le testimonianze restituiscono una realtà difficile dove manca tutto e dove le persone con disabilità soffrono le conseguenze dell’occupazione militare isrealiana e della mentalità chiusa della società tribale araba, che considera la disabilità come una vergogna.
Il documentario viene attualmente proiettato in alcuni circoli privati delle Marche, Regione in cui per sei mesi all’anno vive il regista (negli altri sei vive a Dubai, uno dei sette Emirati Arabi). A breve verrà anche proiettato presso alcuni collettivi studenteschi romani e in alcune Università romane. Sta inoltre partecipando ad alcuni festival internazionali, mentre in primavera verrà presentato negli Emirati Arabi e la prossima estate in Palestina.
La prima testimonianza è quella di una donna di mezza età, che veste un copricapo bianco che le copre la testa, il collo e le spalle e le lascia libero il volto. È disabile motoria e vive nel Campo Profughi Aida. Racconta che la vita nel campo è «fatta di niente». Non c’è lavoro, in dieci vivono in una stanza senza bagno, riscaldamento e cucina, solo da pochi anni le case in muratura sostituiscono le tende, mancano gli ospedali e i centri di riabilitazione.
La Seconda Intifada (rivolta palestinese scoppiata a Gerusalemme il 28 settembre 2000) è stata particolarmente violenta e da quasi tutte le interviste emerge la tragedia vissuta dagli abitanti dei territori occupati. Nel Campo Aida non si poteva uscire di casa nemmeno per cercare cibo o medicine, i soldati vi sono rimasti per alcuni mesi e i cecchini puntavano alle persone attraverso le finestre delle loro abitazioni.
In molti sono diventati disabili a causa delle ferite da loro inflitte dall’esercito, che mentre nella Prima Intifada (1987-1993) aveva utilizzato per lo più pallottole di gomma, questa volta, con quelle di piombo, ha creato numerosi nuovi disabili.
In una delle interviste realizzate da Abdullah, si racconta di un ragazzo sedicenne, disabile intellettivo, gettato in un dirupo da un gruppo di soldati e da allora immobilizzato a letto, per danni alla spina dorsale.
Arriva invece da Hebron la storia del giovane Azmi, ventenne che per aver subito un danno permanente da piccolo, non ha più l’uso delle gambe e si muove in carrozzina. Hebron è piena di salite e discese e Azmi avrebbe bisogno di una carrozzina elettrica, ma non può permetterselo.
La sua testimonianza, come le altre, racconta di un ambiente solidale, dove tra poveri ci si sostiene, in famiglia e nella comunità. Azmi è aiutato dai numerosi fratelli, nonostante sia lui il più grande, e dalla giovane moglie, che definisce «straordinaria». La sua condizione personale è quella della maggior parte delle persone con disabilità in Palestina: disoccupato, non riesce a inserirsi nel mondo del lavoro perché non ha potuto studiare abbastanza, ma anche perché – sia nel pubblico che nel privato – c’è diffidenza nei confronti dei disabili. Inoltre, non riesce ad avere le cure di cui avrebbe bisogno, sia per motivi economici, sia perché la presenza dell’esercito israeliano rende difficili gli spostamenti.
Ghorfat Hamdan raccoglie anche le interviste ai rappresentanti di due associazioni che si occupano di persone con disabilità a Gaza e in Cisgiordania, le due aree in cui sono divisi i territori occupati.
A Gaza un’associazione offre soprattutto attività sportive, ma anche culturali e sociali e si rivolge prevalentemente a persone sorde. A Betlemme, in Cisgiordania, c’è invece l’associazione di Hamdan Jewe’i, il giovane e intraprendente palestinese che il nostro sito ha intervistato in esclusiva qualche tempo fa (e che presto intervisterà ancora una volta per un aggiornamento), a proposito della condizione delle persone con disabilità in Palestina (se ne legga cliccando qui).
Tale associazione organizza, per i ragazzi con disabilità, corsi di informatica, lingue e contabilità e corsi per la gestione d’impresa. Inoltre aiuta chi intende avviare un’attività economica. Tramite un progetto specifico, infine, da alcuni anni vengono realizzati piccoli manufatti, quali astucci, borse, portafogli e oggetti fatti a mano, unendo lo stile palestinese al gusto occidentale, per poi venderli in Europa durante i banchetti e alle feste.
Il documentario si conclude con il contributo di un volontario israeliano che aiuta i palestinesi con disabilità e con il direttore della Nazionale Palestinese che gioca agli Special Olympics (Gruppo del Medio Oriente e del Nordafrica), impegnato nel calcio, nel basket, nella pallavolo, nelle bocce, nell’atletica, nel tennis, nel tennis tavolo, nel nuoto e anche in altre discipline. L’organizzazione si regge soprattutto grazie al volontariato, giacché di stipendiati ce ne sono pochi. Come le altre associazioni, anche questa propone inoltre diverse attività sociali e ricreative.
«Ogni volta che torniamo da una competizione all’estero – racconta il responsabile della Nazionale – veniamo accolti come eroi: infatti, è un po’ un modo di portare speranza al nostro popolo e di smettere di pensare per qualche attimo a come viviamo nella quotidianità».