Torniamo a conversare con Hamdan Jewe’i, il giovane palestinese che sta dedicando la propria vita alla causa dei suoi concittadini che, come lui, hanno una disabilità. Lo avevamo già intervistato nell’estate del 2010 (se ne legga cliccando qui e ci eravamo fatti raccontare la sua storia. Oggi lo reincontriamo, in occasione della sua partecipazione al documentario La stanza di Hamdan del regista italo-siriano Abdullah Al Atrash (con cui Superando ha pubblicato due interviste sulla condizione delle persone con disabilità in Palestina e negli Emirati Arabi Uniti (le si legga cliccando qui e qui).
È migliorata la condizione delle persone con disabilità in Palestina dall’ultima volta che ci siamo parlatim nell’estate del 2010?
«Purtroppo non molto, continuiamo infatti a non avere alcuna assistenza sociale. Solo due cose – per altro non trascurabili – vanno annotate. A livello pratico, abbiamo ottenuto la possibilità di acquistare l’auto esentasse. A livello culturale, aumenta il numero di famiglie che non nasconde più il familiare con disabilità, non lo vive più come una “vergogna” e invece lo sostiene, anche se a quel punto si trova di fronte al problema della mancanza di strutture di appoggio. Certo, specialmente al sud questo problema culturale grave, che mi ha toccato in prima persona, continua ad esistere».
Le persone con disabilità sono organizzate e capaci di farsi rappresentare di fronte al Governo?
«Un paio di mesi fa molti disabili palestinesi sono riusciti a presentare una lettera al Governo palestinese per chiedere assistenza e cura, e per far sì che venga favorita l’integrazione sociale. Per ora non è successo nulla. Da noi le persone con disabilità non possono nemmeno lavorare nel settore pubblico, e tanto meno in quello privato. Vengono loro riportate delle scuse, magari che gli edifici non sono accessibili oppure che è stato presentato un curriculum non sufficientemente professionale. La verità è che esistono pregiudizi sociali e a livello centrale non vengono messe in atto politiche inclusive».
Quante sono le persone con disabilità in Palestina?
«Un numero molto alto rispetto a quello totale della popolazione. Un rapporto tra i più alti al mondo, che supera il 5%. Si tratta di 170.000 persone, di cui 70.000 vivono a Gaza: ben 30.000 di esse sono diventate disabili nel corso della Seconda Intifada (con il termine arabo di “Intifada”, e cioè “rivolta”, ci si riferisce alle rivolte dei Palestinesi contro l’occupazione israeliana. La prima, durata dal 1987 al 1993, si conclude con gli Accordi di Oslo. La seconda inizia nel 2000 e il suo termine è storicamente considerato incerto, N.d.R.)».
Come hai conosciuto Abdullah Al Atrash?
«Tramite un’amica in comune di Ancona. Voleva venire a visitare la Palestina e così gli ho fatto da guida turistica nella scoperta di Betlemme, la città dove vivo. Mi ha raccontato la sua intenzione di realizzare un documentario e la prima intervista l’abbiamo realizzata nel mio ufficio: ecco da dove viene il titolo del suo cortometraggio [“La stanza di Hamdan”, N.d.R.]. Da allora il nostro scambio è continuato; in Italia sono stato a trovarlo a casa sua e insieme ad altri amici delle Marche hanno anche organizzato un incontro in cui ho potuto descrivere la condizione delle persone con disabilità in Palestina. Mi ha invitato a Dubai e organizzeremo presto un’altra mia visita negli Emirati Arabi, perché mi interesso anche della condizione degli arabi con disabilità al di fuori della mia terra. Insieme vorremmo avviare un progetto umanitario per Gaza, dove io personalmente tra l’altro non posso andare dalla Cisgiordania dove mi trovo».
Di cosa ti stai occupando in questo periodo?
«Di molte cose contemporaneamente, come freelance. Sono coinvolto in diversi progetti non solo direttamente rivolti alle persone con disabilità, ma anche riguardanti temi sociali e politici».
E per quanto riguarda la disabilità?
«Sto stendendo un progetto con un’amica di Bari specializzata nella realizzazione di collane a mano. Vorremmo aiutare le donne con disabilità di Betlemme nella produzione artigianali di gioielli».
Altri progetti?
«Organizzo occasioni di quello che io chiamo “turismo alternativo” per gli studenti internazionali e soprattutto per gli Ebrei americani che si trovano a Israele, in modo che possano rendersi conto non solo della qualità di vita degli Israeliani, ma anche di quello che succede nei territori occupati dal loro Governo. Mostro loro cosa significa vivere con il muro [com’è noto, il Governo israeliano ha costruito un muro di 700 chilometri per separare la sua terra da quella della Cisgiordania, spiegando di volersi proteggere dagli attacchi dei terroristi palestinesi, N.d.R.] e racconto la storia dell’occupazione. Li porto nei campi profughi a visitare le famiglie che hanno una persona con disabilità al loro interno e li porto anche a vedere la vita dei coloni israeliani. Cerco di far capire loro quanto sia difficile spostarsi nel mio Paese».
Lo spieghi anche a noi?
«Dopo gli accordi di Oslo del 1994, è stata riconosciuta un’Autorità Nazionale Palestinese. In quel momento la Palestina è stata divisa in tre zone: a, b e c. Nelle prime il controllo spetta totalmente all’Autorità Palestinese. Nelle seconde il controllo è condiviso con il governo israeliano e nelle terze il controllo è israeliano e per muoversi occorre ottenere dei permessi. Così, attorno a Betlemme ci sono numerosi checkpoint, cioè stazioni militari di controllo, e non è facile uscire dalla mia città».
Come funziona esattamente?
«Occorre richiedere un permesso militare ed è più complicato che ottenere un visto internazionale. Occorre fare domanda tre settimane prima e si ottengono autorizzazioni giornaliere o per qualche giorno. Poi ci si reca al checkpoint, dove si presenta la documentazione. La coda può durare anche qualche ora perché si passa uno alla volta. Quando arriva il nostro turno, si cammina lungo un percorso completamente chiuso con la rete e si raggiunge un’altra stazione di controllo. Lì funziona un po’ come in aeroporto, si entra attraverso una specie di porta da cui i militari controllano se nascondiamo qualcosa di pericoloso tra i vestiti. È diverso da quello che accade negli aeroporti, però, perché lì si tratta di un controllo civile, mentre questo è un controllo militare. Ci vengono prese anche le impronte digitali. Infine ci viene comunicata l’ora precisa della scadenza del permesso. Se non ci ripresentiamo in tempo veniamo incarcerati».
Gli ospiti internazionali che conduci in visita nei territori occupati si interessano della condizione delle persone con disabilità?
«Quando li porto nei campi profughi, propongo loro di partecipare all’iniziativa di una mia amica brasiliana che organizza dei corsi di cucina palestinese nelle case delle persone con disabilità. Gli ospiti possono allora imparare a cucinare i nostri piatti tipici, li mangiano insieme alla famiglia e in cambio lasciano un’offerta».
Hamdan dedica anche molto del suo tempo ad attività di advocacy, termine con il quale ci si riferisce alle azioni svolte da un individuo o da un gruppo per influenzare le decisioni politiche ed economiche in riferimento al sistema sociale e alle Istituzioni, per quanto riguarda la destinazione delle risorse. Egli se ne occupa in riferimento alla condizione delle persone con disabilità in Medio Oriente e vuole ottenere l’attenzione internazionale per promuovere il rispetto dei loro diritti umani. In questi ultimi anni ha viaggiato molto e tenuto numerosi incontri, parecchi anche in Italia. Prossimamente affronteremo con lui questo argomento, in modo da poter raccontare ai nostri Lettori la condizione degli Arabi con disabilità in Paesi come la Giordania, il Libano e l’Iraq. (Barbara Pianca)
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