«Cerchiamo uno sponsor, il Progetto Terrena è già pronto» dichiara la ventiseienne barese Azzurra Amoruso. Insieme ad Hamdan Jewe’i, giovane e intraprendente palestinese ormai ben noto ai nostri Lettori (si vedano una prima intervista in cui racconta la sua storia e quella più recente in cui ci aggiorna sulla situazione delle persone con disabilità nei territori palestinesi, oltre che la presentazione di un documentario dove viene narrata anche la sua storia), e insieme a un terzo ragazzo, Ruben Alessandro Ruta, Azzurra intende offrire un lavoro di artigianato a otto disabili di Betlemme.
«In Palestina c’è molta povertà ed è difficile trovare un lavoro» ci spiega. «Per le persone con disabilità, vittima di pregiudizi, la ricerca di lavoro è faticosissima e l’esito positivo è quasi impossibile».
Dei pregiudizi nei confronti delle persone con disabilità in Palestina abbiamo parlato ampiamente nell’intervista all’italo-siriano Abdullah Al Atrash (Palestina: tre volte disabili, disponibile cliccando qui): trattandosi infatti di una società tribale, in cui i matrimoni vengono combinati per regolare interessi tra clan, la presenza di un disabile in famiglia è vissuta come una “minaccia” alla riuscita di “matrimoni di successo”, poiché nessuno vuole accollarsi le spese per il sostentamento del familiare disabile di un altro clan. Inoltre c’è il timore della trasmissione genetica della malattia. Per questo molti disabili vengono ancor oggi tenuti nascosti in casa.
«Addirittura – aggiunge Amoruso – non ne viene neppure dichiarata la nascita, non vengono cioè registrati all’anagrafe».
Come hai acquisito competenze sulla situazione dei territori occupati?
«Ho vissuto per due anni tra la Palestina e Israele».
Come mai?
«Sono rientrata in un programma di scambio universitario – mi sono laureata in Scienze Politiche, Relazioni Internazionali, a Roma – e ho dato alcuni esami e preparato la tesi a Israele».
Qual è il tema della tua tesi?
«Il problema dell’acqua in Cisgiordania».
Ce ne parli brevemente?
«La Cisgiordania è uno dei territori in cui c’è meno acqua al mondo. Causa ne sono problemi ambientali e politici, in particolare per quanto riguarda la gestione delle risorse idriche tra comunità palestinese e israeliana. Ad esempio, i Palestinesi non hanno accesso al fiume Giordano che bagna sia le coste di Israele che quelle della Cisgiordania. È una situazione molto complessa, difficile da riassumere in poche parole».
Come hai incontrato Hamdan Jewe’i?
«Ho lavorato a Ramallah in un’organizzazione palestinese legata alle vicende dell’acqua ed è stato lì che, circa un anno fa, ho conosciuto Hamdan. È una persona splendida, molto motivato nonostante le evidenti e gravi difficoltà che ogni persona con disabilità, com’è lui, incontra nella vita di ogni giorno nei territori palestinesi».
Insieme avete deciso di sviluppare un progetto.
«Esatto. Intendiamo fondare un’impresa sociale, con sede legale in Italia e sede operativa a Betlemme, che abbia come obiettivo quello di produrre gioielli, monili e accessori di moda, offrendo direttamente lavoro alle persone con disabilità che vivono a Betlemme».
Com’è nata l’idea?
«La situazione in Palestina è difficile e i tassi di disoccupazione sono altissimi nei vari distretti. Offrire un’opportunità di lavoro diretto alle persone con disabilità potrebbe essere un modo concreto per mostrare a loro e alla società tutta che anche chi ha una disabilità può essere un membro attivo della stessa».
Ma perché proprio gioielli?
«Ho un’esperienza di nove anni nel settore. Da quando ho iniziato a studiare all’università, mi sono mantenuta gli studi realizzando attività di bigiotteria. Facevo gioielli e accessori per moda da vendere nei mercatini. Fin da allora mi era sorto il desiderio di aprire un giorno un’attività artigianale».
Come si sviluppa il progetto?
«La cosa interessante è che i prodotti saranno disegnati da me e poi realizzati interamente dai lavoratori con disabilità a Betlemme, che seguiranno inizialmente un corso di formazione di sei mesi per imparare le tecniche base. Intendo “realizzati interamente da loro”, nel senso che non vogliamo organizzare una catena di montaggio, ma dare a ciascun lavoratore la possibilità di creare il signolo prodotto dall’inizio alla fine, vedendolo nascere nelle proprie mani».
Lo sponsor che cercate quali spese dovrà sostenere?
«Con il finanziamento dovremo ristrutturare secondo i criteri dell’accessibilità l’appartamento che abbiamo già individuato come sede operativa del lavoro, acquistare le materie prime, organizzare e gestire il corso di formazione e retribuire i lavoratori almeno per il primo anno, finché non metteremo sul mercato i prodotti e inizieremo a guadagnare (l’impresa sociale che fonderemo non ha scopo di lucro, quindi i soldi serviranno per far funzionare il progetto e soprattutto per pagare i lavoratori, visto che è questo lo scopo primario dello stesso)».
Dove distribuirete i prodotti?
«Abbiamo intenzione di puntare sulla vendita online, attraverso un sito che verrà creato ad hoc. Inoltre intendiamo appoggiarci ad organizzazioni internazionali che lavorano con la Palestina, per i diritti umani o nel mondo della disabilità. Abbiamo già diversi contatti e diverse risposte di interessamento. Poi, se va tutto bene, potremmo anche avere un punto vendita. In sede operativa a Betlemme, nella sede legale in Italia e magari anche altrove».
Come verranno realizzati i gioielli?
«Con qualsiasi tipo di materiale: pietre preziose, oro, argento, materiale prezioso, ma anche materiali più economici come le pietre dure. La novità è che verranno utilizzati dei materiali innovativi, diversi, che non si vedono in giro di solito nei negozi di bigiotteria. Si tratta di monili o pendenti fatti a mano con il legno d’ulivo, perché a Betlemme ci sono grandi artigiani che lavorano il legno d’ulivo, oppure useremo la ceramica di Hebron, delle monete antiche, o perle di cartapesta fatte direttamente dai ragazzi con disabilità. L’idea è quella di mischiare il pezzo prezioso con altri meno preziosi che però richiedono molta manodopera».
La collezione è già stata disegnata?
«Sì, l’ho disegnata. Prevediamo di produrre quattrocentosessanta pezzi ogni sei mesi e per farlo avremo bisogno di impiegare otto persone palestinesi disabili, con la speranza che gli affari vadano bene e si possa procedere all’assunzione di nuovi lavoratori».
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