È stata pubblicata su «il manifesto» del 21 febbraio scorso [Corpi disabili, resistenti al «normale», di Martino Doni, disponibile cliccando qui, N.d.R.] una recensione del testo di Julia Kristeva e Jean Vanier Il loro sguardo buca le nostre ombre (Roma, Donzelli, 2010) e questa è già una notizia, poiché la disabilità viene affrontata dalla stampa nazionale sotto un’altra luce rispetto ai soliti criteri e ad alcuni temi (spiace solo che ciò non avvenga più spesso).
Ora, non si tratta di chiosare nuovamente né su quel testo – di cui da queste stesse pagine non avevo sottaciuto né i pregi né i limiti [si legga nel nostro sito: M. Schianchi, Aleggiare sulla disabilità, cliccando qui, N.d.R.] -, né di avviare un dialogo a distanza con il recensore, Martino Doni. Da quella recensione emerge una visione della disabilità che forse vale la pena discutere, giacché simili temi non sono particolarmente consueti, né nella stampa, né in altre sedi.
Quella recensione è interessante e ricca. Il problema, però, è la frase conclusiva: «Il punto è proprio questo: di fronte al “grado zero” della fragilità, all’umanità nel suo stato puramente affidabile, non prestare fede è forse l’atto più colpevolmente empio che la civiltà dei consumi può perpetrare. Prendersi cura dello storpio, del cieco, del povero in spirito, invece, è forse l’unico vero atto di fede possibile per ripensare il senso dell’umanità, oggi e domani, nella dimensione penultima delle ore mortali».
Non ho dubbi sul fatto che culturalmente, politicamente e socialmente (in fatto di disabilità e molto altro), siamo «nella dimensione penultima delle ore mortali», né voglio spostare la questione sui diritti, sulle politiche e sulle cose più urgenti che circondano il mondo della disabilità. Resto sul piano culturale.
Il fatto che la disabilità torni ad essere – ora per carità, ora per eresia – qualcosa di cui “prendersi cura” è nuovamente inquietante. È mai possibile che non si riesca davvero mai a fare i conti con la dimensione articolata della disabilità, senza guardarla dall’alto al basso o senza considerarla uno strumento – qui – «per ripensare il senso dell’umanità»…?
Ovunque ci si giri, la disabilità è una realtà “su cui intervenire”, “per la quale fare qualcosa”, “attraverso cui dire qualcos’altro”. C’è sempre quel guardarla da un piedistallo, come qualcosa che è estraneo anche quando si afferma di esserne coinvolti. È sempre metafora, segno, simbolo che rimanda ad altro (dalla precarietà dell’esistenza al castigo divino, dai misteri della vita alla dimensione della morte).
Io non nego l’esistenza di tutte queste percezioni per cui la disabilità è sempre un tramite per altro. Questa dimensione strumentale, infatti, è operante nelle culture, nelle pratiche, nelle credenze, nelle società, nelle psicologie individuali e collettive. Mi rammarico, invece, della persistente impossibilità di riuscire a pensare, foss’anche in un solo scritto o in un discorso, la disabilità in altro modo: il suo essere “una cosa in sé”, pur nella sua infinita strumentalità.
La recensione di Doni si concentra sui temi della differenza e della profezia. Anche qui, differenza da qualcosa, profezia di qualcosa. Vien da pensare che anche queste sono delle fughe dalla disabilità in quanto tale. La disabilità “è”. Si riesce – sul piano del pensiero almeno – a fare i conti con questa “essenza ontologica”, oppure dobbiamo rassegnarci a pensarla sempre come il “simbolico Caronte” dell’essenza umana?
Caronte, appunto. Nel testo di Kristeva e Vanier, la «disabilità è allora integrazione della morte, che non vuol dire quieta e rassegnata accettazione», scrive il recensore. Di sicuro, il richiamo tra disabilità e morte è uno dei temi più operanti sul fronte simbolico, esistenziale, psicologico (ma attenzione a non ridurre tutto a queste dimensioni). In questo complesso binomio morte-disabilità, alla seconda si applicano automaticamente tutte le rimozioni di cui è oggetto anche la prima, sotto la forma del suo “essere strumento”, giacché la disabilità è comunque vitale e non è definitiva come la morte. Entrambe, tuttavia, sottostanno – se non alla rassegnazione – alla volontà, al desiderio di abolirle, eliminarle, ridurne la fastidiosa portata, dando loro un rassicurante valore strumentale, incanalandole nel “già noto”, per quanto inammissibile e inaccettabile.
In uno dei saggi che meglio descrive il rapporto con la morte, Lo scambio simbolico e la morte (Milano, Feltrinelli, 1984), Jean Baudrillard scriveva che siamo incapaci di fare i conti con la morte, come parte di noi: «[…] è la paranoia della ragione, i cui assiomi fanno sorgere ovunque l’inintelligibile assoluto, la Morte come inaccettabile e insolubile, l’Accidente come persecuzione, come resistenza assurda e malvagia d’una materia, d’una natura che non vuole mettersi in ordine sotto le leggi “oggettive” in cui è stata cacciata (p. 178)». Lo stesso accade con la disabilità, che deve sempre essere ricondotta ad altro, a “problematiche armonie” che vanno oltre, ancor prima di averci guardato seriamente dentro, talmente è un problema inconcepibile.
*Storico. Autore del libro La terza nazione del mondo. I disabili tra pregiudizio e realtà (Milano, Feltrinelli, 2009).
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