Per riassumere in una sola parola la vita di Silvia Distefano, si può senz’altro parlare di grinta! Perché Silvia è proprio questo: un concentrato di femminilità, caparbietà, professionalità, sportività, benché la sua vita sia stata segnata da un’infezione al midollo spinale che l’ha resa paraplegica.
Silvia ha 35 anni, vive a Genova ed è medico anestesista. Di sé dice che ama fare e guardare fotografie – soprattutto in bianco e nero e di paesaggi – che ama il teatro e la musica classica, operistica e folk-popolare tradizionale, che legge tanti libri e che coltiva il più possibile la vita all’aria aperta.
Andiamo subito al dunque, per farci raccontare com’è successo il “fattaccio”. Silvia ne parla con serenità. «La disabilità è arrivata improvvisamente. Era il periodo nel quale il ballo era la mia “malattia”. Quella sera l’avevo trascorsa a ballare in piazza con musica dal vivo, cercando di coinvolgere più passanti possibili in modo da diffondere la cultura della tradizione. Era già una settimana che non mi sentivo benissimo, avevo un po’ di febbricola e mi lacrimavano gli occhi, in sostanza nulla di preoccupante. La mattina successiva, verso l’ora di pranzo, ho avuto la sensazione di avere una “spada piantata nella schiena” e dopo poco non muovevo più le gambe e non le sentivo più. Dopo alcune ore, questa paralisi ha iniziato a salire. Sono andata in ospedale e sono iniziati i miei drammi. Poi, dopo varie peripezie e visite fuori Genova, si è giunti a una diagnosi “probabile” di “verosimile mielite parainfettiva da CMV” [citomegalovirus, N.d.R.]».
«E dopo – chiediamo – cos’è cambiato nella tua vita?». «Semplicemente ho iniziato a convivere con la mia mielite. Infatti, dopo un inizio in cui ero decisamente giù di morale, ho deciso di tornare a fare la il più possibile simile a prima, lavorando e facendo quasi tutto quello che facevo prima. Il primo passo è stato un corso teatrale intitolato Laboratorio delle emozioni presso il Teatro Garage di Genova. Ai saggi di fine anno ho portato la mia disabilità sul palco con orgoglio. Il teatro mi ha fatto trovare energie e potenzialità che non immaginavo di avere. Adesso faccio parte del corso di recitazione e prendo parte ai festival di teatro e disabilità, soprattutto nel Nord-Est».
L’eclettica dottoressa genovese ci racconta fiera che ha imparato a godersi ogni istante e ogni piccola cosa della vita. «I primi tempi – ci dice – tornata a casa dall’ospedale, perdevo ore a sentire cantare gli uccellini (non ricordavo di averli mai notati in città) o a guardare il sole tramontare sul mare. Mi mancava l’attività sportiva, perché prima facevo di tutto: roccia, corsa, bicicletta, cammino in montagna, sci. Lo sport era la cosa che effettivamente mi mancava di più. Con il mio compagno abbiamo iniziato a cercare in internet le possibilità per “noi disabili” e del tutto casualmente ho trovato un filmato di un ragazzino che veniva portato sulle piste da sci. Abbiamo contattato l’associazione che se ne occupava e ci siamo trovati dopo qualche settimana in Trentino, a imparare a sciare di nuovo. L’inizio è stato terribile, facevo molta fatica ed ero sempre per terra. Però mi piaceva, soprattutto sentire l’aria fresca in faccia, il sole e la sensazione di libertà. Ho deciso che avrei continuato a sciare e così dopo vari corsi in altrettanti posti, ho acquisito una certa sicurezza nel controllo dell’attrezzo. E come quando si scia in piedi, una volta acquisita la tecnica si inizia a divertirsi, così succede anche sciando da seduti. Mi godo le piste e mi godo anche a vedere la gente che quando passo mi osserva. Non è facile vedere un disabile sciare, ma quando passiamo, destiamo di certo l’attenzione di tutti gli altri».
Silvia mette poi l’accento su un problema serio, che riguarda una parte della nostra cultura e ci spiega: «Anche sul palcoscenico non si vedono attori disabili, soprattutto integrati in compagnie di non disabili. I teatri non sono accessibili e il pubblico non è abituato a vedere un “inatteso” attore disabile che può destare reazioni differenti. Mi piacerebbe “provocare”, in modo che in futuro sia la norma avere compagnie miste».
Cos’è cambiato nel tuo lavoro a causa della mielite?
«Quando sono stata meglio ho provato a riprendere il lavoro, camminavo con le stampelle. Facevo moltissima fatica, ma cercavo di essere uguale agli altri. Arrivavo a metà turno stanca morta, ma stringevo i denti e cercavo di non far vedere la stanchezza. Pian pianino la situazione è peggiorata, ogni tanto il mio virus si risveglia e mi dà ulteriori problemi, da cui non riesco mai a riprendermi completamente. Ad ogni ricaduta vedo un costante peggioramento e difficilmente riesco a migliorare e tornare come prima. La cosa più “fastidiosa” è la stanchezza e la fatica: spesso mi sveglio già stanca o mi basta vestirmi per sentirmi già pronta per tornare a riposarmi. Non è solo stanchezza fisica, perché anche stare a sentire qualcuno che mi parla, spesso mi distrugge fisicamente. E così ora lavoro in ambulatorio, faccio visite anestesiologiche preoperatorie. Ma io amavo il lavoro in terapia intensiva che ormai non posso più svolgere, semplicemente perché non è un lavoro “da disabili” e ho dovuto rinunciarci per il rispetto delle persone che in quell’ambito vengono curate».
Essere donna ed essere disabile può essere discriminante?
«Fortunatamente io lavoravo e non ho avuto quindi problemi a trovare un lavoro, ma suppongo che se fossi stata disoccupata allora, lo sarei ancora adesso. Spesso trovo ostruzionismo nei curanti, soprattutto per quel che riguarda l’avere una vita normale. Se esprimo il desiderio di diventare madre, si inizia subito a tentare di farmi desistere, a pormi davanti a tantissime problematiche che “potrebbero succedere”. Io vedrò il problema in modo molto scientifico, ma teoricamente anche alla donna più sana potrebbero insorgere problemi durante la maternità, così come a chi inizia una maternità già con problemi poi potrebbe andare tutto bene.
Un po’ di discriminazione c’è quando vado in giro, quando guido, quando entro nei negozi. Spesso mi chiedono dov’è il mio accompagnatore, cosa che poi non chiedono se entra un disabile uomo. Non saprei il motivo, forse perché sono una donna “mignon” e sembro una bambina, per questo si pensa che non possa andare in giro da sola. A volte, invece, essere donna disabile desta interesse, ci sono persone che mi chiedono come gestisco la mia vita, se lavoro e se guido. Credo che a un uomo queste domande non vengano fatte, in fondo siamo sempre noi donne che parliamo sempre anche con persone mai viste!».
Come sono cambiate le relazioni sociali dopo l’infezione midollare?
«Con la mielite molti amici si sono stretti intorno a me, venivano a trovarmi e solo in pochi ci ho visto compassione. Altri sono spariti fin da subito o lentamente nel tempo. Ho però conosciuto tantissime persone speciali, sia disabili che non disabili, ma che per vari motivi vivono nel mondo della disabilità (amici, parenti, educatori, terapisti,…). Ovviamente con altri disabili il rapporto è sempre ottimo, si parla anche apertamente di problemi comuni. Non esistono mezzi termini, si va direttamente al punto. Con gli amici io mantengo un rapporto uguale a prima, voglio essere considerata uguale a prima».
E… l’amore?
«Con il fidanzato all’epoca ero in dubbio. Una “fidanzata disabile” è un problema, sarà sempre un peso, una preoccupazione, limiterà la vita anche a lui. Mi ha aiutato il fatto che ci siamo conosciuti nel mondo del volontariato e che quindi lui fosse pienamente cosciente dei problemi che avremmo avuto. La coppia ha resistito, ci siamo uniti ancora di più.
Ora lui mi supporta in tutto quello che faccio, a volte con fatica perché non riesce a star dietro alla mia esuberanza. Spesso dice che “il disabile è lui”. Sulle piste da sci mi segue come un angelo custode. Si arrabbia insieme a me se troviamo i posteggi riservati o le rampe occupati, si preoccupa di trovare posti accessibili, si informa anche a mia insaputa su cosa possiamo fare insieme».
Cosa ti piacerebbe realizzare?
«Non lo so, non ci ho ancora pensato. Forse semplicemente vivere normalmente, come prima. Credo che sia il mondo esterno che si dovrà adattare a me e non io ad esso».
Speranze e desideri?
«Ciò che sperano tutti, progressi medici per tornare a usare completamente tutto il mio corpo. Seconda speranza – se la prima fallisse – non dover litigare ogni giorno per far valere diritti e possibilità di vita normale, speranza di poter passare su un marciapiede, di poter attraversare la strada senza macchine posteggiate sulle strisce, di poter andare in qualsiasi negozio o ufficio senza dover essere servita per strada e tante piccole cose che potrebbero semplificare la vita». (Dorotea Maria Guida)
*Servizio apparso anche in «Disabiliabili.net», con il titolo Silvia… che grinta! e qui ripreso, per gentile concessione, con lievi riadattamenti al contesto.